CECILIA BARRIGA – Processi 151

CECILIA BARRIGA, OVUNQUE MI PORTI IL MIO NOME


.REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

OVUNQUE MI PORTI IL MIO NOME, IL PROGETTO

Taci Cecilia, taci.

Mia madre mi chiamò Cecilia perché cantassi. Con questa premessa sono venuta a Roma alla ricerca di altre Cecilie che, come me, fossero state chiamate dai loro genitori in quella musicalità diffusa, in quella storia di martirio e di violenza contro le donne che è iscritta nel nostro nome, il nome di Santa Cecilia.

Ho cercato Cecilie per le strade, alle manifestazioni, affiggendo manifesti nei negozi, ponendo direttamente quella domanda fuori luogo e, al tempo stesso, completamente situata nella città e nel corpo: ti chiami Cecilia?

E contro ogni pronostico, quasi guidate dalla magia delle cose quando vogliono accadere, 42 donne che si chiamavano allo stesso modo si sono riunite, in tre incontri di canto e riflessione.

Santa Cecilia ha ispirato centinaia di canzoni popolari nella storia musicale italiana, ma è stata La povera Cecilia, di Gabriella Ferri, quella che abbiamo fatto nostra. Quella del marito giustiziato, quella che uccide il carceriere, tutte quelle morti, la Cecilia assassinata.

Il nostro nome che ci unisce e questa canzone ci hanno accompagnato per portare in superficie le nostre storie di violenza, che ci uniscono a loro volta, che ci hanno accompagnato a creare e recuperare la memoria emotiva di quel nome aleatorio che tuttavia portiamo inscritto nella voce, nel corpo, nella memoria, collettivamente, in un percorso dell’essere una essendo molte e di essere molte stando insieme.

L’opera che vi presentiamo, Ovunque mi porti il nome, è il risultato materiale di questi incontri. Il risultato di una materia emotiva che condividiamo con voi, e che è anche già parte di noi.

Mia madre mi chiamò Cecilia perché cantassi.

Cecilia non tace più.

Canta, Cecilia, canta.

Libretto_perf copia

 

SU CECILIA BARRIGA


Cecilia barriga

Cecilia Barriga, nacida en 1957 en Concepción de Chile. Creadora audiovisual. Licenciada en Ciencias de la Información en UCM. Vive en Madrid desde 1977. Trabaja en diferentes ciudades del mundo.

Su obra indaga en los feminismos, las luchas sociales teniendo Chile como referente, el devenir de la violencia contra las mujeres, emigrantes y colectivos LGTBI+. Fascinada por la materia original de los archivos audiovisuales y por la captura en pequeño formato como lenguaje, su mirada capta tanto el espacio íntimo y solitario de una persona, como la performatividad espontánea de las multitudes. Estableciendo una tensión constante entre ambos espacios que impulsa la dinámica de sus relatos. Lleva más de cuarenta años trabajando en la creación audiovisual, colabora con colectivos y otros artistas. Utiliza diversos formatos, como videocreación, cine de no-ficción, documental , performance, etc. Exhibidos en cine, televisión y museos de arte contemporáneo de distintos países. MOMA Nueva York. Museo Whitney. Nikolaj, Copenhaguen. CAAC, Centro Andaluz de Arte Contemporáneo. Sale Rekalde, Bilbao. Bildmuseet Úmea University, Suecia. Centro de Arte Arteleku, ARTIUM, Vitoria. Centro de Arte Museo Reina Sofía, Madrid. MUSAC, León. Koldo Mitxelena Culturenea, San Sebastián, Van Abbeuseum Eindoven. Becas: Ministerio de Cultura ICAA. Ibermedia, AVAM-CRAC 70X2, Fundación VEGAP, Centro de Arte Monterhermoso, FFAI, Fundación Rosa Luxemburgo, BBVA Multiverso, etc.

https://www.hamacaonline.net/authors/cecilia-barriga/

www.wmm.com/filmmaker/Cecilia+Barriga/

A donde me lleve el nombre 1   A donde me lleve el nombre 2   A donde me lleve el nombre 3    A donde me lleve el nombre 4

LOLA SAN MARTÍN ARBIDE – Processi 151

LOLA SAN MARTÍN ARBIDE

MUSICA PSICO-GEOGRAFICA. LA SPERIMENTAZIONE SONORA NELL’INTERNAZIONALE SITUAZIONISTA (1957-1972)


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 |  MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

SCHEDA TECNICA

L’arte come atmosfera e la musica come sottofondo sonoro 

Lola San Martín Arbide

2024

Walter Olmo (Alba, 1938-Roma, 2019), Come non si Comprende l’Arte Musicale. Morte e Trasfigurazione dell’Estetica, 1957

Documento originale in mostra

 

MUSICA PSICO-GEOGRAFICA. LA SPERIMENTAZIONE SONORA NELL’INTERNAZIONALE SITUAZIONISTA (1957-1972), IL PROGETTO

Nel corso della storia, la musica accademica è stata utilizzata come musica di sottofondo più spesso di quanto si possa pensare. Dal Novecento in poi, il pubblico delle principali sale da concerto è diventato gradualmente più silenzioso per consentire un ascolto concentrato, riflessivo e analitico. Questo tipo di ascolto è tuttavia un’eccezione. Molte opere che oggi ascoltiamo in questo modo sono state composte come sottofondo sonoro per azioni quotidiane, come godersi un banchetto o conciliare il sonno. È il caso della Tafelmusik di Georg Philip Telemann e delle Variazioni Goldberg di J. S. Bach, per citare due casi paradigmatici. Tuttavia, è solo all’inizio del Novecento che avviene una differenza formale nella composizione della musica d’ambiente e di quella concepita per un ascolto attento. La musica di sottofondo è quindi concepita come necessariamente discreta e la sua durata e struttura dipendono più dalle esigenze specifiche della vita quotidiana che dalle convenzioni compositive delle varie forme musicali quali la sonata, la fuga, il rondò, ecc. In questo modo, la musica d’ambiente si avvicina al design industriale e acquisisce pertanto le sfumature dell’utilitario e del funzionale.

La musica d’ambiente si colloca quindi all’estremo estetico opposto rispetto alla famosa concezione dell’arte per l’arte. Si tratta piuttosto di “soddisfare bisogni utili”, come disse il compositore francese Erik Satie (1866-1925), che teorizzò questo genere funzionale con i suoi brani noti come Musique d’ameublement (1917), che definì suoni industriali. Satie lavorò in una Parigi rivoluzionata da nuove forme di consumismo e intrattenimento popolare. Sia la sua musica d’ambiente che quella cinematografica devono molto a questo contesto urbano, dove hanno attinto tanto dalla musica da cabaret quanto dai suoni delle strade e dal design industriale e dai suoi materiali. Così, alcune delle sue brevi composizioni d’ambiente hanno titoli come “Piastrelle sonore” (Carrelage phonique) o “Arazzo in ferro battuto” (Tapisserie en fer forgé). Nel “Saggio sulla musica d’arredamento” Satie difende la sua proposta di uno sfondo musicale con un tono scherzoso che imita gli slogan pubblicitari e annuncia questo tipo di musica come un nuovo genere che può essere “confezionato su misura”.

La musica utilitaristica di Satie è stata descritta come un vicolo cieco. La figura di questo compositore è stata recuperata solo nella seconda metà del Novecento nel contesto della neoavanguardia attraverso il compositore americano John Cage. Descritto come una figura discordante e marginale nel contesto di Parigi, sembra che Satie non abbia lasciato tanti discepoli tra i compositori quanto tra gli artisti di altre discipline. Il fotografo Man Ray descrisse Satie come l’unico compositore che avesse anche gli occhi. Nella sua Francia natale, il pittore francese Maurice Lemaître, membro del gruppo d’avanguardia dell’Internazionale Lettrista, rivendicava la “musica di Satie che non serve a nulla” come uno dei meriti dell’avanguardia storica. L’Internazionale Lettrista si unì alla London Psychogeographical Association e al Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista per fondare l’Internazionale Situazionista nel 1957.

L’Internazionale Situazionista tenne il suo congresso di fondazione nell’estate del 1957 nel paesino di Cosio d’Arroscia, in Liguria. Questo collettivo basava gran parte della sua sperimentazione artistica sullo studio e la creazione di ambienti. L’atteggiamento utopico dei situazionisti si proponeva di smantellare il concetto di opera d’arte autonoma e di favorire invece la “dissoluzione dell’arte in una rivoluzione politica”. Una delle principali preoccupazioni di questa rivoluzione era il modo in cui l’ambiente urbano condiziona la vita emotiva delle persone. Da qui nacquero la pratica della deriva psicogeografica e il concetto di urbanistica unitaria, che chiedevano entrambi di trasformare la città in un campo di possibilità in cui il soggetto non fosse estraneo al gioco e all’avventura. In questo contesto, la pratica artistica si orientava non verso la creazione di opere autonome, bensì verso la costruzione integrale di un’atmosfera.

Il 30 maggio 1958 venne inaugurata alla Galleria Notizie di Torino La Caverna dell’antimateria, opera del pittore piemontese Pinot-Gallizio e del figlio Giors Melanotte. Si tratta di un’opera pionieristica di installazione multimediale e immersiva nel contesto dell’avanguardia europea. Le pareti di questa caverna erano ricoperte dalla pittura industriale di Gallizio, che veniva venduta al metro e che, come la Musique d’ameublement di Satie, poteva quindi essere realizzata su misura. La Caverna era un ambiente totale, in cui convergevano la pittura e il suono, la diffusione di profumi e il movimento di figure umane, anch’esse vestite con le tele di Gallizio.

Rispondendo ai precetti situazionisti, il compositore Walter Olmo (1938-2019) – unico musicista tra i fondatori dell’Internazionale Situazionista – ideò una musica d’ambiente con sottofondi sonori, i cui principi applicò all’installazione torinese della Caverna, la cui componente sonora proveniva da un theremin modificato. Tra i suoi testi del 1957 ricordiamo “Come non si Comprende l’Arte Musicale. Morte e Trasfigurazione dell’Estetica”, qui presentato integralmente.

Gallizio immaginava che la sua pittura industriale potesse avere una varietà di applicazioni, ad esempio nell’arredamento e nell’architettura. Olmo, da parte sua, aveva iniziato a sperimentare la manipolazione del suono a metà degli anni Cinquanta, utilizzando nastri magnetici. La sua musica per sottofondi sonori doveva essere discreta e adattarsi alla vita quotidiana. Olmo ne prevedeva la diffusione in spazi come salotti, bar, biblioteche, cucine, ecc. Il musicista, produttore e compositore britannico Brian Eno (1948) ha definito la sua ambient music negli stessi termini. Olmo si riferiva alla sperimentazione con il rumore dei futuristi come uno dei precedenti storici della sua musica d’ambiente. Eno, d’altra parte, cita nei suoi scritti Muzak, il marchio americano che negli anni Trenta vendeva musica d’ambiente per negozi e abitazioni e il cui nome designa genericamente questa musica, chiamata anche canned music, musica da ascensore, musica leggera ecc.

Il primo album di musica di sottofondo di Eno, Ambient 1: Music for Airports (1978), è spesso considerato l’opera che ha inaugurato il genere. Fu utilizzato in pubblico all’aeroporto La Guardia di New York e fu il primo di una lunga serie di album d’ambiente del compositore. L’idea centrale che collega queste tre menti originali è il suo carattere industriale e la possibilità di comporre una musica che non culmina mai in una cadenza finale: la musica d’ambiente si adatta alla durata delle attività della vita quotidiana.

Proprio come Satie e Olmo, la musica d’ambiente di Eno è il frutto del suo interesse per i parallelismi tra musica e pittura e per la capacità della musica di creare ambienti immersivi. L’utopia della meccanizzazione della composizione della musica d’ambiente, del suo design e della sua produzione industriale, si concretizza nel caso di Eno nelle applicazioni per telefoni cellulari sviluppate dal compositore in collaborazione con Peter Chilvers. Queste producono la cosiddetta musica generativa che rende obsoleta la figura del compositore. Il compositore vive ora nel telefono di chiunque scarichi l’applicazione, creando così una musica d’ambiente infinita ma sempre mutevole.

La musica d’ambiente di Satie, Olmo ed Eno si basa sull’esplorazione della nozione di utilità applicata alla musica. Questa nozione è veicolata attraverso l’utopia macchinista di progettare sistemi creativi o dispositivi industriali in grado di generare arte, un’arte liberata dagli aspetti mondani della creazione artistica, come i vincoli di spazio e tempo di un’opera d’arte convenzionale o la necessità di ispirazione e ingegno. Questi sistemi producono ripetizioni a volontà e generano una composizione che promette di fondersi con l’ambiente. È paradossale, tuttavia, che questi esempi siano musica d’ambiente relativamente poco discreta: quella di Satie per la sua sonorità incisiva, quella di Olmo per il contesto espositivo in cui si inserì, mentre quella di Eno attira l’attenzione dell’ascoltatore per la sua originale finezza. In ognuno dei tre casi si può apprezzare lo sforzo dei compositori di rivendicare il diritto al silenzio, di non rovinare le atmosfere quotidiane utilizzando come sottofondo sonoro opere che non sono state concepite per questo uso, e di offrire un’alternativa specificamente pensata per questo scopo. Satie lo ha fatto partendo dall’avanguardia più ironica, Olmo dall’utopia rivoluzionaria ed Eno dal fascino per la tecnologia della produzione musicale.

 

SU LOLA SAN MARTÍN ARBIDE


Lola SanmartinBilbao, 1987. Lola San Martín Arbide si è laureata in Storia e Scienze della Musica e in Traduzione e Interpretazione presso l’Università di Salamanca. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Musicologia presso la stessa università nel 2013 con una tesi sulla musica d’ambiente, lo spazio urbano e l’arte multimediale. Da allora ha lavorato come ricercatrice post-dottorato presso l’Università dei Paesi Baschi ed è stata ricercatrice presso la Oxford University e l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi. Attualmente è ricercatrice Ramón y Cajal nell’Area della Musica dell’Università di Siviglia. Ha effettuato soggiorni di ricerca presso l’Observatoire musical français (Paris IV-Sorbonne), la University of California Los Angeles (UCLA) e il New Europe College-Institute for Advanced Study (Bucarest).

Le sue principali linee di lavoro sono la storia culturale della musica dal XIX secolo in poi, gli scambi tra le arti, la musica nei media audiovisivi, i rapporti tra musica e spazio urbano, l’ecologia sonora e la storia delle emozioni, in particolar modo la nostalgia. Ha pubblicato articoli e numerosi capitoli di libri su Erik Satie e Claude Debussy, sull’opera Carmen, sulle mappe sonore e attualmente sta scrivendo una monografia sul paesaggio sonoro e musicale di Parigi attraverso il cinema, la letteratura e la musica del XIX e XX secolo.

ANE RODRÍGUEZ ARMENDARIZ – Processi 151

ANE RODRÍGUEZ ARMENDARIZ, MATERIE DI CURA


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

MATERIE DI CURA, IL PROGETTO

Materie di cura è un progetto di ricerca speculativa e propositiva sulle pratiche di cura nel campo delle istituzioni artistiche. Nel suo aspetto speculativo, cerca di esplorare il potenziale del campo dell’arte per generare spazi di cura. Nel suo aspetto propositivo, mira a raccogliere e presentare le strategie esistenti, offrendo alternative concrete. Concentrandosi su casi di studio provenienti dal contesto italiano, il progetto si è concentrato in particolare su ambienti di intensa convivenza, come le residenze artistiche. Ispirandosi ai postulati ecofemministi di María Puig de la Bellacasa, che sottolineano la natura intrinsecamente relazionale della conoscenza, la ricerca ha proposto processi collettivi di riflessione articolati attraverso diversi formati.

 Nel corso di questi sei mesi sono state sviluppate diverse attività che hanno approfondito la ricerca.

 1. Materie di cura

Stampa digitale, formato 70 x 100

Design dell’immagine: Igor Baiona

Testo del progetto. >>> Per leggere di più, cliccate qui: Materie di cura_IT

2. Tassonomia della cura

Vinile tagliato.

Audio 5’48”.

Grazie a Belenish Gil Moreno e Óscar Escudero per la registrazione e il montaggio dell’audio.

Definizioni sulla cura date da diversi borsisti e operatori dell’Accademia Reale di Spagna alla domanda Qual è la tua definizione di cura? nel marzo 2024. Grazie a: Alejandro, Alex, Alonso, Amaya, Begoña, Belén, Brigitte, Carmen, Cecilia, Kimi, Lidia, Luz, Maria, María Luisa, Miguel, Óscar, Pedro C, Petro T, Rocío, Rubén, Simona. Anche a Camila per essersi unita alle letture effettuate da diversi colleghi nel giugno 2024.

3. Letture di cura

Stampa digitale 80 x 50

Design dell’immagine: Igor Baiona Munain

Compendio dei testi letti durante le sessioni di lettura.

Letture di cura è stato un gruppo di lettura nell’ambito del progetto Materie di cura. Attraverso i testi proposti da ciascun ospite, sono state affrontate questioni relative alla prassi istituzionale a partire da postulati teorici. Ognuno di loro ha presentato testi particolarmente rilevanti per il proprio modo di intendere e affrontare l’istituzione.

Ospiti: Chiara Cartuccia, Elena Agudio, Simone Frangi, The Glorious Mothers, Castro Projects e Ayse Idil Idil, Gioia Dal Molin.

Si ringraziano tutti i partecipanti per il loro contributo:

Agnese, Alba, Alessandra, Angelica, Anna, Ayse, Caterina, Cecilia, Chiara C., Chiara P., Dafne, Dani, Daniele, Dora, Elena A., Elena B., Erika, Eva, Fabiola, Federica, Federico, Flavia, Francesca, Ginevra, Gioia, Irene, Ixone, Joshua, Justa, Marta, Paulina, Renata, Sara A., Sara B., Sarina, Simone, Valerio.

4. Verso un’idea di cura

Il 20 e 21 maggio si è svolto il programma pubblico che ha concluso il progetto Materie di cura. Verso un’idea di cura. Esperienze e proposte per le istituzioni artistiche è stata la naturale prosecuzione delle sessioni di lettura che hanno cercato di trovare le basi per attivare le nostre organizzazioni da prospettive più solidali. Il seminario ha mostrato diversi esempi e proposte provenienti dalla Spagna e dall’Italia che esplorano le dinamiche relazionali tra le istituzioni e le loro comunità, con particolare attenzione al concetto di cura e ai suoi immaginari.

Programa:

Introduzione. Ane Rodríguez Armendariz. On making home. Elena Agudio, Anna Serlenga, Fabiola Fiocco. On supporting collectively. Flavia Introzzi.     On making relationsRoser Colomar, Cecilia Canzani & Ilaria Gianni, Valerio del Baglivo. On caring beyond the human, Erika Mayr. On making time. Alba Colomo, Francisco Navarrete, Andrés Gallardo, Flavia Prestininzi.On your hands, on your breath.  Sarina Scheidegger.

Video riassuntivo del programma pubblico Verso un’idea di cura

Video, 6′.

Regia e montaggio di Marcos Mendívil.

Grazie a Cecilia Barriga.

Come preludio all’attività pubblica, un workshop ha riunito curatori con sede in Spagna o in Italia con esperienza in organizzazioni artistiche e programmi di accoglienza per artisti per scambiare prospettive sulle possibilità e i limiti delle istituzioni artistiche.

Il workshop è stato facilitato da Irene Angenica e Ane Rodríguez Armendariz, con la partecipazione di Alba Colomo (La Escocesa, Barcelona), Ane Agirre Loinaz (Tabakalera, San Sebastián), Anna Tagliacozo (Castro Projects, Roma), Chiara Cartuccia (Comisaria invitada en la Unidad de Residencias UNIDEE, Fondazione Pistoletto, Biella), Chiara Siravo (Locales, Roma), Elena Agudio (Villa Romana, Florencia), Flavia Introzzi (hablarenarte, Madrid), Francesco Navarrete (L’Aquila Reale, Licenza), Frédéric Blancart (Villa Medici, Roma), Ginevra Ludovici (CampoBase, Roma), Ilaria Gianni (IUNO, Roma), Ilaria Mancia (comisaria independiente, Roma), Roser Colomar (Idensitat/ Cultura Resident, Barcelona/Valencia).

SU ANE RODRÍGUEZ ARMENDARIZ


Ane Rodríguez Armendariz RRSS-WEB

Ane Rodríguez Armendariz lavora all’intersezione tra curatela e gestione culturale, in quella che concepisce come pratica istituzionale, uno spazio da cui riformulare e definire le modalità di funzionamento delle istituzioni artistiche in relazione alle loro comunità. È da questa posizione che affronta il lavoro che ha svolto in diverse istituzioni culturali spagnole negli ultimi 18 anni.

Da settembre 2020 a giugno 2023 è stata responsabile del Centro de residencias artísticas de Matadero Madrid, dove ha articolato una serie di programmi volti a sostenere e accompagnare gli artisti. Come direttrice culturale di Tabakalera (San Sebastian, Spagna) tra il 2012 e il 2019, è stata responsabile della configurazione del progetto culturale iniziale, che comprendeva programmi di sostegno alla produzione di arte e conoscenza, attraverso mostre, residenze e programmi pubblici.

Il suo interesse per il cinema e le arti visive l’ha portata a lavorare anche in un luogo intermedio di linguaggi audiovisivi sperimentali che attraversano tanto i cinema quanto le sale espositive. Ha lavorato con artisti come Yto Barrada, Itziar Okariz, Eric Baudelaire, Esther Ferrer, JumanaManna, Uriel Orlow o Filipa Cesar.

Dal 2020 è tutor dei progetti presso la Elías Querejeta Zine Eskola.

MÒNICA PLANES – Processi 151

MÒNICA PLANES, PILA


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

SCHEDE TECNICHE

Pila

Mònica Planes

2024

 

Era verso fuori e ora verso dentro (non si vanta più), 2024

Malta di sabbia e grasso vegetale, fagioli, paraffina, gesso, legno

100 x 40 x 30 cm

 

Svolta inaspettata (insostenibile), 2024

Malta di sabbia e grasso vegetale, paraffina, gesso, garza, legno

100 x 60 x 30 cm

 

Manca un corpo allungato (abbraccio), 2024

Malta di sabbia e grasso vegetale, fagioli, paraffina, gesso, legno cemento

75 x 195 x 35 comunque

 

Pila è un’indagine scultorea sulla rappresentazione del corpo in movimento nel corso della storia. Le tre sculture sono il risultato di questa ricerca in Italia. Sono fatte con una malta di sabbia e grasso vegetale e prendono forma usando il corpo intero come uno strumento per dare forma al materiale.

 

PILA, IL PROGETTO

Pila è un’indagine scultorea sulla rappresentazione del corpo in movimento nel corso della storia: quali tipi di corpi sono stati rappresentati, in quali posture, con quali materiali, con quale motivo e come sono entrati in relazione con l’ambiente circostante. La ricerca si articola in tre parti. La prima parte è uno studio sul campo della scultura di diversi periodi storici in cui è presente la rappresentazione del corpo. La seconda è uno studio del movimento, che consiste nell’appropriarsi del movimento trovato nelle sculture precedentemente selezionate, per poi riprodurlo nel corpo e ripeterlo sotto forma di esercizi per immagazzinarlo nella memoria muscolare. Con questa metodologia voglio incorporare il movimento, le posture e, quindi, gli atteggiamenti rappresentati e fissati scultoreamente in altri contesti. Infine, la terza parte consiste in un processo di sperimentazione con materiali organici in cui fissare questi movimenti trovati nelle sculture. Mi interessano materiali come il grasso, il carbone, la paglia o il pane per la loro capacità di immagazzinare e trasformare energia. In questo modo, la scultura cessa di essere un oggetto con un inizio e una fine e diventa uno stato di un processo più ampio che si estende nel tempo e dipende dalle caratteristiche ambientali del contesto in cui si trova.

Nel corso delle mie ricerche in Italia, mi sono concentrata soprattutto sulla scultura dell’antichità (greca e romana) e dell’età moderna (Rinascimento e Barocco), sebbene abbia esplorato, in misura minore, anche la scultura medievale. In tutti questi periodi, la rappresentazione del corpo è stata importante.

Finora ho osservato come la pratica della copia, dell’imitazione e della ripetizione attraversino tutti questi contesti storici in modo non lineare. Pertanto, nel realizzare questo gruppo di tre sculture, ho continuato a utilizzare queste tecniche come metodo di lavoro, ma senza cercare una rappresentazione diretta ma, piuttosto, esplorando la ripetizione, l’imitazione e la copia come processi creativi indipendenti dalla rappresentazione figurativa. Vale a dire che, per dare forma a queste sculture, sono partita da una selezione di sculture trovate in Italia, mi sono messa al loro posto e ho imitato il comportamento del corpo che rappresentano. L’imitazione mi aiuta a capire il loro comportamento e a ottenere un ritorno. Io agisco come la scultura per dare forma a un’altra scultura, e in un certo senso anche lei dà forma a me. Portando le caratteristiche del corpo rappresentato nel mio corpo, esse si caricano della mia esperienza. Il processo è circolare, perché nelle loro possibilità trovo le mie.

La sabbia è il materiale che utilizzo maggiormente nel mio processo di lavoro. La uso per registrare il movimento del corpo, che in questo caso a volte è il mio, altre volte quello delle mie compagne di residenza. Una volta registrato il movimento, posso solidificarlo con altri materiali. In questo caso, ho usato il grasso vegetale di cocco come agglutinante per la sabbia, generando una malta, ma di grasso invece che di cemento. In questo modo, il grasso diventa un elemento strutturale delle sculture e mi permette di farle e disfarle quando ne ho bisogno, semplicemente modificando la temperatura dell’ambiente.

A Roma fa molto caldo in questi giorni, quindi presento queste tre opere accompagnate da ventilatori che mantengono stabile la temperatura della stanza e permettono loro di rimanere intatte per tutta la durata di questa mostra. In caso contrario, potrebbero sciogliersi nel momento più insperato.

 

 SU MÒNICA PLANES 


monica Planes

Mònica Planes (Barcellona, 1992) ha conseguito un Master in Produzione e Ricerca Artistica (2016) e si è laureata in Belle Arti presso l’Università di Barcellona (2014). Ha presentato il suo lavoro individualmente alla Fundación Suñol (2017), insieme ad Alejandro Palacín alla Fundación Arranz-Bravo (L’Hospitalet de Llobregat, 2018), al Centro Cívico Can Felipa (Barcellona, 2020), alla galleria àngels barcelona (Barcellona, 2021, Art Nou 2017), con Pipistrello (Baix Empordà, 2021) e alla Gelateria Sogni di Ghiaccio di Bologna (Bologna, 2022). Negli ultimi anni ha ricevuto borse di studio dalla Fondazione Felícia Fuster (2016), Han Nefkens – Posgraduados UB (2016), Fundación Guasch Coranty (2017), Ayudas Injuve para la Creación Joven (2018-2019) e Barcelona Crea 2021 (2022). Ha inoltre ricevuto il Premio Art Jove de la Sala d’Art Jove (2018), è stata selezionata per il III Premio Cervezas Alhambra (ARCO, 2019), per il Premio Miquel Casablancas (2020) o per la Biennal d’Art Ciutat d’Amposta BIAM (2020, 2018) e al Premio Generación 2023 di La Casa Encendida. Le ultime mostre collettive di cui ha fatto parte sono “Lo que pesa una cabeza” al TEA di Tenerife, “Remedios. Donde podría crecer una nueva tierra” prodotta da TBA21 al C3A di Cordoba e “Turno de réplica. Cuestión de piel” al Museo Patio Herreriano di Valladolid. Nel settembre del 2023 ha svolto una residenza presso lo spazio di ricerca Bulegoa z/b di Bilbao e, attualmente, è residente dell’Academia de España en Roma, Italia. Ha infine partecipato a diversi progetti educativi come Creadores En Residencia (2019) o “Fuera de reservas”.

 

BRIGITTE VASALLO – Processi 151

BRIGITTE VASALLO

[ROMA O MORTE]


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

[ROMA O MORTE], IL progetto


Joseph Kosuth crea One and Three Chairs nel 1965, la ricerca della “sedia” attraverso tre diversi registri. Il museo che ospita l’opera dice nel suo catalogo che l’artista “ci invita a decifrare le frasi subliminali con le quali articoliamo la nostra esperienza dell’arte”.

 

Non sono un’artista: sono una scrittrice alla ricerca di una letteratura per non lettrici, una scrittrice figlia di contadine illetterate di tradizione orale. Analfabete, ci chiamavano. Nel mio villaggio, Chandrexa de Queixa, il signor Alfredo che ha quasi cent’anni è preoccupato perché la banca non gli permette più di firmare con l’impronta del pollice. Dice che, da quando sono arrivate le scartoffie, l’essere umano ha smesso di avere parola. Che, prima delle firme e dei contratti, le parole non erano qualcosa che poteva essere spazzato via dal vento, che il nominare era materializzare. Eravamo persone di parola, dice.

 

Non conosco Joseph Kosuth: ma parlando con Ixone Sádaba, un giorno mentre pranziamo in giardino, un giorno qualsiasi, in cui le racconto della mostra e della mia angosciosa ricerca della forma, lei mi fa questo nome.

 

“L’arte che chiamo concettuale”, dice Kosuth, “è tale perché si basa su un’interrogazione sulla natura dell’arte”.

 

La mia interrogazione è sulla natura della Storia, del racconto della storia. Che cosa fa sì che una storia sia Storia, che cosa fa sì che una memoria perduri come memoria, al di là dell’aneddoto, della battuta, della nota a piè di pagina, dell’eccezione, della stranezza. Qual è la materia che separa la rovina dalle macerie. Il monumento dall’oblio.

 

Da cinque mesi vivo in compagnia della frase Roma o morte; davanti alle mie finestre, iscritta sull’Ossario Garibaldino, un monumento ai morti che dice di tenerne viva la memoria. Quanto può essere viva una memoria della morte che non includa le vite in essa? Quanto può essere viva la memoria fissata sul monumento, immortalata?

 

Marc Augé dice che ci sono luoghi che non sono neanche questo, neanche meri luoghi, perché non hanno storia monumentale, identità o legami relazionali. Marc capisce solo Roma o la morte.

 

Da anni cerco la genealogia della diaspora contadina dell’Europa del Sud, quell’Europa che si pensa urbana e industriale e che, da lì, impone il suo mondo senza futuro al resto. Da anni cerco una nostra genealogia che non passi attraverso le logiche imperiali, attraverso il racconto scolastico, attraverso il museo, attraverso i film che ritraggono un mondo arretrato, violento, retrogrado, sporco e vergognoso che dicono essere stato la nostra campagna prima dell’agricoltura, prima del capitale, prima del progresso; racconti che non sorvolino sui nostri legami diasporici, i nostri pacchi da giù, i nostri ritorni d’estate nei paesi d’origine, in arrivi che sentono come ritorni a una casa perduta; vado alla ricerca di identità che non trascurino la nostra identità bastarda, deforme, effimera, attraversata dal divenire.

 

La mia domanda è come fare una storia che non desideri avere un monumento, che appartenga a qualcos’altro, a un altro mondo, ad altre ontologie. E che non menta nemmeno su chi sono io: oralità, memoria del corpo e la letteratura che, tante volte, mi ha anche salvato la vita.

su BRIGITTE VASALLO

Brigitte-8Alba Garcí Fijo

Scrittrice, drammaturga e ricercatrice, titolare della cattedra Mercè Rodoreda di Studi Catalani presso l’Università di New York (CUNY), docente del Master in Genere e Comunicazione presso la UAB e ideatrice del 1° Festival della Cultura Txarnega a Barcellona.

Senza studi universitari, è figlia di contadini di Chandrexa de Queixa esiliati dalla loro terra ed emigrati. Il suo lavoro ruota attorno ai meccanismi di costruzione dell’alterità, con particolare interesse per la differenza sessuale e la scomparsa delle epistemologie contadine.

Come drammaturga, ha presentato Naxos, dramma in tre lamenti e un paio di atti, diretto da Gena Baamonde e appartenente alla prima fase della Trilogia di Naxos, e Un cos (possible) i lesbià, sull’opera di Monique Wittig, co-diretto insieme all’artista visiva Alba G. Corral. La sua produzione letteraria comprende romanzi come PornoBurka, saggi come Pensamiento Monógamo, Terror Poliamoroso o Lenguaje inclusivo y exclusión de clase, e poesie narrative come Tríptico del silencio, pubblicate contemporaneamente in tre diverse versioni nelle sue tre lingue madri.

Web: https://www.brigittevasallo.com/
Instagram: @la_vasallo

PEDRO TORRES – Processi 151

PEDRO TORRES, FESSURA


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

SCHEDA TECNICA

Fessura

Pedro Torres

2024

Installazione con videoproiezione, suono, veneziane automatizzate, faretti, specchi e carta

L’osservazione della luce – e delle ombre – è un fenomeno fondamentale, un’esperienza che dà luogo alla scienza e all’arte, due modi di intendere noi stessi nel mondo. Fessura è l’installazione che nasce dalla ricerca sul rapporto tra luce e materia. Basata sui concetti di interferenza e diffrazione, l’opera racchiude elementi di carattere specifico che si verificano nello spazio stesso in cui è stata concepita e in cui viene esposta.

L’installazione riunisce vari elementi – tende veneziane, videoproiezione, faretti, specchi, carta e suono – che si configurano come un dispositivo scientifico, mancato, per creare uno spazio fittizio. Uno spazio che gioca con la percezione visiva e provoca uno spostamento dello sguardo.

Il video proiettato duplica la realtà e si confonde con essa. Le veneziane fungono da schermo e allo stesso tempo da membrana, con un movimento di apertura e chiusura costante ma lento, come un respiro, mettendo in discussione le nozioni umane di dentro e fuori, di continuità e discontinuità. Questa scelta, per costituzione, rimanda all’esperimento scientifico della doppia fenditura, fondamentale per la comprensione del comportamento della luce (come onda e come particella). Qui le fenditure si moltiplicano e cambiano scala, diventano spazi interstiziali attraverso i quali filtra la luce.

Fessura rende visibili alcuni intrecci fisici e mette in discussione l’apparenza della realtà. È una breccia nel nostro rapporto con la luce. Una luce che ci penetra, ma anche che diffrange, causando interferenze e intrecciando tutto.

Crediti:

Concept: Pedro Torres

Registrazione e montaggio video, programmazione luci: Pedro Torres

Suono: Unai Lazcano

Programmazione Arduino: Miguel Ángel de Heras (Hangar)

FESSURA, IL PROGETTO

Fisura [Fessura] dalla nozione scientifica di interferenza per approfondire il rapporto tra la misurazione e la conoscenza che abbiamo della realtà. In fisica, questa interferenza viene osservata attraverso l’interazione dell’ambiente con la luce, che viene disturbata e crea diversi modelli di interferenza. Al centro di questi esperimenti c’è una delle caratteristiche fondamentali della luce – la dualità onda-particella – e il suo comportamento di diffrazione. “La diffrazione”, dirà Karen Barad, “misura gli effetti della differenza, ma ancora più profondamente evidenzia, mostra e rende visibile la struttura intrecciata dell’ontologia contingente e mutevole del mondo, compresa l’ontologia della conoscenza”. Fisura si basa sulla ricerca attorno a questi concetti per proporre un’opera che cerca di destabilizzare la nostra percezione del reale attraverso i sensi e l’esperienza spaziale.

 

SU PEDRO TORRES

PedroTorres

Pedro Torres incentra principalmente la sua pratica artistica sul concetto del tempo, esplorandone diversi aspetti, da approcci e prospettive differenti, sia scientifiche che filosofiche. A partire da questo asse centrale, connette il tempo con altre aree della nostra esperienza, come lo spazio, la materialità, la memoria, il linguaggio e anche l’immagine. Nella sua pratica impiega una varietà di mezzi di comunicazione, cercando un equilibrio tra estetica e sfera concettuale. I temi e le teorie scientifiche sono molto presenti, così come la necessità di esplorare diversi media e processi e di indagare in modo metodologico, intuitivo e poetico. Ha realizzato mostre personali e partecipato a mostre collettive e biennali in Spagna, Italia, Ecuador, Colombia, Argentina, Messico e Turchia. Ha ricevuto premi e sovvenzioni, come la borsa di studio Barcelona Crea, la borsa di ricerca del Dipartimento di Cultura della Generalitat de Catalunya, la PostBrossa, la borsa di Exchange art3/Homesession, gli Ayudas a la Creacción S.O.S ARTE/CULTURA di Vegap, il bando di produzione della Fondazione “la Caixa” e la borsa di studio per le arti visive della Fundación Botín, tra gli altri. Ha partecipato a residenze artistiche in Francia, Islanda, Corea del Sud, Germania e Spagna. Le sue opere si trovano nelle collezioni di MACBA, Fundación Botín, Blueproject Foundation, Colección Untitled e collezione olorVISUAL.

Web: https://www.pedrotorres.net
Instagram: @pedrooootorres