ALONSO GIL – Processi 151

ALONSO GIL, I FANTOCCI DI ROMA


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

I FANTOCCI DI ROMA, IL PROGETTO

Mi sono basato sul significato del termine italiano consapevolezza, che potrebbe essere tradotto come coscienza della realtà o coscienza dell’ambiente, e durante la mia permanenza a Roma ho posato il mio sguardo e messo al lavoro la mia macchina creativa in relazione agli esclusi dalla società, quella parte di mondo che generalmente ignoriamo perché non vogliamo vederla, in quanto la sola vista speculare ci fa girare la testa dall’altra parte.

La città come paradigma di convivenza umana rappresenta una promessa ai suoi cittadini di una vita basata sull’inclusione emancipatoria. Tuttavia, questa forma di socializzazione sta subendo ora una drastica interruzione in cui prevale l’esclusione.

In parallelo, ho dipinto una sorta di nuovi comandamenti, a mo’ di haiku, che ci esortano a vivere un’esperienza di vita piena e liberatoria.

 

PORCA MISERIA, ALONSO GIL Y RUBÉN OJEDA GUZMÁN

Porca Miseria è il titolo di una mostra concepita per essere presentata presso la norcineria Iacozzilli a Trastevere, nei pressi della piazza di San Cosimato. Le opere realizzate erano state pensate per essere circondate da prosciutto, salsicce, polpette, guanciale e, soprattutto, porchetta. Tuttavia, avendo sfidato le autorità italiane, la mostra non ha mai avuto luogo.

Porca Miseria è un’espressione colloquiale di stupore, rabbia, fastidio o delusione. È un modo molto italiano di maledire la sfortuna che si usa quando qualcosa va storto e denota frustrazione o disagio. D’altra parte, per noi era evocativo anche l’elemento del porco e della carne, in quanto temi ricorrenti nel nostro lavoro.

Grazie ai nostri interessi comuni e alla vicinanza dei nostri argomenti artistici, abbiamo instaurato una dinamica di produzione collaborativa che, nella maggior parte dei casi, ha dissolto l’autorialità. Dopo aver messo in piedi una sorta di laboratorio di argilla, luci, assemblaggio di oggetti trovati e readymade rimaneggiati, sono cominciate a fiorire opere che strizzavano l’occhio al selvaggio, al cannibalismo, al caso truccato, il tutto avvolto nel fumo nero emanato dalle nostre teste.

I pezzi ora esposti a Processi 151 sono diventati documenti di ciò che è diventata una voce inespressa di una grande mostra.

 

 SU ALONSO GIL


Alonso Gil web

Alonso Gil (1966) è un artista le cui pratiche in diversi formati, tipologie e discipline offrono una concezione generale dell’arte e dell’artista non soggetta a categorizzazioni impermeabili.
Dalla fine degli anni Ottanta lavora in vari contesti di sperimentazione sociale in progetti che coinvolgono diversi collettivi, stabilendo un processo di lavoro comune.

Ha tenuto mostre personali presso La Sala AtínAya di ICAS (Siviglia); Espacio Santa Clara ICAS (Siviglia); CICUS (Siviglia); The Anti-Personnel Mine BanConvention (Oslo); CAAC (Siviglia); ARTifariti, Tinduf (Algeria); Meiac (Badajoz); Museo Ex Teresa Arte Actual (Città del Messico). E nelle gallerie Buades e Formato Cómodo (Madrid); Berini (Barcellona); Cavecanem (Siviglia); 38 Langham Street Gallery (Londra); Kobochika (Tokyo) e AscanCroneGalerie (Amburgo).

Ha partecipato a mostre collettive presso il Núcleo de Arte, Maputo (Mozambico); MUSAC (León); CDAN (Huesca); NIV Art Gallery, New Delhi; NuitBlanche (Toronto); Miam, Séte (Parigi); Creative Time (New York); Manifesta 4 (Francoforte) o BIACS (Siviglia).

Ha sviluppato opere nello spazio pubblico come Canteminación, Cáceres Abierto, (Cáceres); Graffiti Celestial (Córdoba); Tunning Cofrade, Intervenciones en Jueves 08 (Siviglia) o Guantanamera, Madrid Abierto (Madrid).
Ha collaborato a pubblicazioni come Refractor, La Infiltración, Revista de Occidente, PromotionalCopy, EarthFirst e Vacaciones en Polonia.

Web: https://www.alonsogil.com
Instagram: @alonsogil_7

ALEJANDRO ANDÚJAR – Processi 151

ALEJANDRO ANDÚJAR, IL VUOTO DELLA MORETA


.REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

SCHEDA TECNICA

Vuoto della Moretta

Alejandro Andújar

2024

 

Plastico in scala 1:1 di tubo quadrato di alluminio 30×30 mm e compensato di pioppo verniciato.

È il soprannome popolare dato a un’area di via Giulia rimasta vuota dopo la distruzione del tessuto urbano che la costituiva nel 1939, a favore di un gran viale di collegamento tra il Gianicolo e la Chiesa Nuova prevista dal Piano regolatore di Marcello Piacentini.

L’installazione raccoglie il documento sotto forma di plastico in scala 1:1, al momento della demolizione del vano scala di un palazzo scomparso in questo aggressivo intervento urbanistico. Si tratta del numero 21 di vicolo dello Struzzo.

Lo spettatore vede una descrizione sintetica di uno spazio in un determinato momento. Il plastico esprime una rovina, ma non con macerie, resti di malta, tubature e travi di legno, bensì con legno di pioppo, balsa e alluminio, materiali tradizionali per la costruzione di un plastico.

 

IL VUOTO DELLA MORETA, IL PROGETTO

Dal 1939 c’è un terreno che si è consolidato come una realtà spaziale che, sulla base di un progetto urbanistico di Marcello Piacentini, architetto del regime mussoliniano, è rimasta pressoché immutata per 85 anni a causa di varie questioni burocratiche.

Con questo progetto spaziale voglio sovrapporre diverse realtà susseguitesi in questo luogo prima di arrivare al suo aspetto attuale, e quindi riflettere da un lato sullo scempio che questi interventi hanno fatto del tessuto sociale e urbano, e rivendicare, dall’altro, come un monumento al fallimento, le aspettative disattese che sono state concepite dal potere governativo.
In un contesto scenografico, il visitatore sperimenta l’atmosfera di camminare in un’installazione in cui queste sovrapposizioni sono presentate sulla base di una documentazione storica delle diverse trasformazioni verificatesi nel Vuoto della Moretta da Giulio II a Il Duce.

 

SU ALEJANDRO ANDÚJAR

Alejandro Andujar

Cáceres, 1979. Laureato in Belle Arti all’UCM e in Scenografia alla RESAD, continua la sua formazione come dottorando all’ETSAM.

Ha ricevuto borse di studio da diversi enti come l’Akademie der Bildende Kunste di Monaco, la Fundación José Estruch, l’UTE (Unión de Teatros de Europa).

Dal 2001 ha lavorato come scenografo e costumista per teatri come l’Ópera Teatre del Liceu di Barcellona, il Teatro Real di Madrid, il Gran Teatro de Ginevra, l’Ópera di Losanna e il Palau de les Artes di Valencia. Ha inoltre lavorato a stretto contatto con registi come Lluis Pasqual, Jose Luis Gómez, Gerardo Vera, Helena Pimenta, Alfredo Sanzol, Juan Carlos Martel e Julio Manrique in teatri nazionali spagnoli come il Centro Dramático Nacional, la Compañía Nacional de Teatro Clásico, il Tetre Lluire e il Teatro de La Zarzuela.

Ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti come il Premio Max, il Premio Butaca e il Premio de la Crítica Catalana. Parallelamente alla sua carriera professionale di scenografo, ha intrapreso un percorso di creazione artistica in cui esplora lo spazio e la sua percezione, in opere come El Futuro, insieme a Cris Celada, al Centro L’Artesá e ora alla RAER.

 

AMAYA GALEOTE – Processi 151

AMAYA GALEOTE, QUELLI CHE BALLAVANO A ROMA


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 |MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

scheda tecnica

Quelli che ballavano a Roma

Amaya Galeote

2024

Videoinstallazione multischermo

Durata: 28’

QUELLI CHE BALLAVANO A ROMA, IL PROGETTO

C’è stato un giorno in cui, guardando i miei genitori danzare, mi sono sorte molte domande: come vivevano quelle generazioni, qual era il loro rapporto con il ballo e come si conoscevano attraverso il corpo. Mi ha sempre interessato ciò che potevo imparare da loro, e questa curiosità mi ha portato a svolgere una ricerca su come erano i rapporti delle generazioni che hanno trascorso la loro giovinezza tra gli anni ‘60 e ‘70 in Spagna; che tipo di musica ascoltavano e i locali che frequentavano. Tutto questo è diventato un atto scenico in cui erano loro, attraverso interviste e riflessioni, a raccontarci come hanno vissuto quel periodo, condividendo le loro storie.

Sono andata a Roma con l’intenzione di continuare questa ricerca e mi sono posta le stesse domande e altre nuove che erano rimaste senza risposta. A Roma ho fatto molte interviste, conoscendo altri quartieri e altre persone che mi hanno convinto che non c’era una distanza così grande tra la generazione spagnola e quella italiana, nonostante le molte cose che pensavo li separassero, come ad esempio le note differenze politiche dell’epoca. Con tutte queste informazioni, mi è sembrato molto interessante mettere in dialogo i due Paesi, ed è in questo dialogo che si possono vedere le differenze, ma soprattutto le somiglianze tra loro. In tutto questo processo ci sono state più sorprese che certezze, e con tutto questo materiale ho deciso di fare una videoinstallazione esplorando qualcosa di nuovo per me, trattando l’immagine come se fosse una coreografia in cui tutto si unisce per farci capire parte di quel momento.

In quest’opera si è creato anche un piccolo spazio per un’indagine coreografica nata dai balli di quegli anni, che ho voluto condividere con i miei colleghi, rendendoli partecipi di tutto questo apprendimento. Insomma, farli danzare, un’esperienza che parla dell’individuo e del suo bisogno di appartenere a un gruppo.

In questa videoinstallazione mi avvalgo dell’aiuto di Cinzia Giovanettoni per il montaggio video, di Marc Álvarez per la composizione musicale e il suono e di Óscar Escudero per il montaggio video per multischermo, oltre che di tutte le persone intervistate a Madrid e a Roma e dei borsisti dell’Academia de España en Roma 2023/2024.

 

 SU AMAYA GALEOTE


Amaya Galeote

Amaya Galeote è danzatrice, coreografa e pedagoga, laureata in danza al Real conservatorio di Madrid e in Storia dell’Arte all’Universidad Complutense di Madrid.
La sua carriera è piuttosto eclettica: come interprete ha fatto parte di diverse compagnie di danza, come coreografa ha creato spettacoli e allo stesso tempo ha collaborato con artisti di altre discipline. Attualmente la sua carriera si incentra sul movimento scenico e sulla coreografia teatrale.

Ha usufruito di residenze creative presso il Centro coreográfico Canal e la Compañia Nacional de Danza, e diversi suoi lavori sono stati sovvenzionati sia dal Comune che dalla Comunità di Madrid.
Ha lavorato per il Teatro de la Zarzuela, Teatro Real, Teatro Español, Teatros del Canal, Teatre Lliure, Centro Dramático Gallego, Teatro Clásico, Teatre Nacional de Catalunya e ha partecipato a diverse produzioni per il Centro Dramático Nacional.

Collabora con registi come Carme Portacelli, Emilio Hernandez, Gianina Carbonariu, Amelia Ochandiano, Teatro en Vilo, Sergio Peris Mencheta, Marta Pazos, Alfredo Sanzol e Declan Donnellan.
Come direttrice ha curato l’anteprima del suo lavoro di ricerca “Los que bailaban” nella sezione +Dramas del centro dramático nacional; il suo ultimo lavoro come regista e coreografa è stato “Os navegantes”, per la compagnia Dançando com a diferença (Viseu, Portogallo).

CAMILA BARACAT VERGARA – Processi 151

CAMILA BARACAT VERGARA

LIBERTÀ AL CILE: RITORNO ALLE CENERI, MEMORIA E ARTE PUBBLICA ALLA BIENNALE DI VENEZIA DEL 1974


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 |MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

LIBERTÀ AL CILE: RITORNO ALLE CENERI, MEMORIA E ARTE PUBBLICA ALLA BIENNALE DI VENEZIA DEL 1974, il progetto 

Tornare alle ceneri per affrontare lo Sradicamento

 

Tra Venezia e il Cile ci sono 12.536 chilometri, quattro volte la distanza tra Venezia e la Palestina, nello specifico 3.603 chilometri fino a Gaza. Anche se sappiamo che la solidarietà nella Storia non sia mai precisamente dipesa dalla vicinanza territoriale, c’è qualcosa in questa distanza così vicina tra Venezia e Gaza e così lontana tra Venezia e il Cile che non posso fare a meno di notare.

Gli spostamenti e la genealogia dei movimenti che ci abitano intercedono e compaiono in ogni processo creativo o immaginario, per quanto si opponga resistenza. Oggi, strascico delle migrazioni dei miei antenati e in uno sradicamento ontologico conseguente alla mia disintegrazione materna, non posso far altro che cercare di tracciare un atlante del presente con le ceneri del passato per vedere in che modo le braci che continuano a bruciare mi interrogano.

 

 SU CAMILA BARACAT VERGARA


Camila Baracat

Camila Baracat Vergara, storica dell’Universidad Diego Portales di Santiago del Cile, Master in Comunicazione e Cultura Contemporanea dell’Universidad Nacional de Córdoba, Argentina. Diploma in Pratiche Curatoriali presso la Facoltà di Arti dell’Università del Cile.

Mi sono dedicata alla ricerca nel campo delle arti e del management culturale, agli studi sulla memoria e al loro legame con le pratiche artistiche, principalmente attraverso la fotografia. Nel 2022 ho pubblicato il libro “Memorias de Luz: Imágenes que faltan” con la casa editrice Ocholibros. Curatrice e ricercatrice della mostra “Inventario: fotolibros y otras visualidades desde el 73 hasta hoy”, esposta al Centro Cultural Palacio la Moneda nell’ambito della Fiera Stgofoto 2023 e alla Biblioteca Nazionale del Cile (da settembre a novembre 2023). Faccio parte del team di gestione della mostra Acontecer 50 años, un’esposizione per il 50° anniversario del colpo di Stato in Cile presso il Museo Nacional de Bellas Artes. Assistente di ricerca di Luz María Williamson per la mostra “Variaciones Espaciales” Retrospettiva dell’artista franco-cilena Simone Chambelland (2023).  Ho partecipato come ricercatrice e responsabile di progetti per la diffusione delle arti visive e il coordinamento di mostre in varie istituzioni culturali: Galería San Marcos, Galería Ex Aduana e Teatro Municipal di Arica (2022) tra gli altri.

IXONE SÁDABA – PROCESSI 151

IXONE SÁDABA, abitare le rovine della modernità 


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

SCHEDA TECNICA

Abitare le rovine della modernità

Ixone Sádaba

2024

 

TITOLO 1: CHI SOSTIENE L’ISTITUZIONE? I PARALIZZATO DALLA PAURA

TITOLO 2: CHI SOSTIENE L’ISTITUZIONE? II VIVO SENZA MEMORIA

Fotografie in stampa digitale su carta di cotone.

140 x 100 cm.

Ed 1/3.

2024

 

TITOLO 3: ROTTURA, SOSTEGNO E STRUTTURA DELLA ROVINA MORALE I

TITOLO 4: ROTTURA, SOSTEGNO E STRUTTURA DELLA ROVINA MORALE II

Strutture di legno e metallo + diversi elementi personali.

Dimensioni variabili.

Edizione unica.

2024

 

ABITARE Le rovine della modernità, il progetto

L’impalcatura è una struttura ausiliare e, al tempo stesso, essenziale nella conservazione architettonica delle rovine. Una struttura che mi interessa particolarmente per tre ragioni: per il carattere interessante della sua forma, per il fatto di sostenere e mantenere e per il modo in cui questo la lega alla maternità.

Partendo dal riferimento iniziale delle strutture di consolidamento delle rovine nate nell’Ottocento, prospetto qui un cambiamento di paradigma, un gioco semantico e formale sull’idea di rovina rispetto a quella della cura e del sostegno. Il progetto sviluppato in Accademia si concretizza in un’installazione di quattro opere, che concilia scultura e fotografia e che mi ha permesso di continuare l’esplorazione su cui si basa gran parte del mio lavoro.

Che cosa segnaliamo per il futuro? Stiamo puntellando una rovina morale?

Mentre ci sforziamo di sostenere le rovine di un impero, avanziamo tramite un processo di distruzione sociale sistematica. Un’idea di progresso che, nata dopo la Seconda guerra mondiale fondamentalmente negli Stati Uniti, convive con una forma patriarcale di fare politica che conforma la storia dell’Occidente (compresa la storia di Roma) e che ci ha portato fino a questa modernità ereditata; semplificata, etnocentrica e distruttiva. L’arroganza dei conquistatori e delle corporazioni rende incerto ciò che possiamo tramandare alla generazione successiva, umana e non umana.

Dalla mia posizione di artista e ricercatrice mi chiedo, come possiamo utilizzare meglio la nostra ricerca per arrestare l’ondata di rovina?

Possiamo mettere al centro l’atto del sostenere, del puntellare? È questo il ruolo del femminismo in pieno antropocene? E qual è il ruolo dell’immagine e della rappresentazione all’interno di un nuovo immaginario simbolico?

Che cosa decidiamo di preservare per il futuro?

L’impalcatura è una struttura ausiliare e, al tempo stesso, essenziale nella conservazione architettonica delle rovine. Usando come riferimento iniziale le strutture di consolidamento delle rovine nate nell’Ottocento, si prospetta un gioco semantico e formale sul trattamento preventivo della rovina. Un cambiamento di paradigma nel nostro concetto di cura e conservazione. Ponendo l’accento sull’atto di sorreggere e non sul sorretto.

Attraverso gesti di montaggio e assemblaggio, Sádaba genera una serie di paesaggi materiali costruiti con elementi trovati all’interno della fabbrica che comprendono vestiti da lavoro, mobili, piante e oggetti vari. In questo modo, le opere generano un racconto sulla materialità dell’Antropocene e un dialogo con le rovine architettoniche della centrale nucleare.

 su IXONE SÁDABA

Ixone Sadaba

Ixone Sádaba è un’artista e ricercatrice nata a Bilbao. Si è laureata in Belle Arti presso l’Università dei Paesi Baschi e ha completato la sua formazione presso l’Università Antonio de Nebrija di Madrid nel 2001 e con il Postgraduate Program dell’International Center of Photography di New York nel 2005.

Con oltre 20 anni di esperienza nel mondo dell’arte, ha sviluppato il suo lavoro tra gli Stati Uniti, Londra e l’Iraq e ha esposto le sue opere a livello internazionale in luoghi come il Museo Guggenheim di Bilbao, il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid, il MoCCa Contemporary Art Museum di Toronto e il Contemporary Arts Center di New Orleans.

 

 

JON CAZENAVE – Processi 151

JON CAZENAVE, UNA CREPA NEL PAESAGGIO


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

schede tecniche

Crepa Etna 1:

2024
Basalto trasferito su carta mediante serigrafia

80×60 cm

 

Crepa Etna 2:
2024
Basalto trasferito su carta mediante serigrafia

80×60 cm

Crepa Etna 3:

2024
Basalto trasferito su carta mediante serigrafia e basalto trasferito su vetro mediante serigrafia

80×60 cm.

 

Crepa Etna 4:
2024
Basalto trasferito su carta mediante serigrafia e basalto trasferito su vetro mediante serigrafia

80×60 cm

 

Crepa Etna 5:
2024
Basalto trasferito su vetro mediante serigrafia

80×60 cm

 

Crepa Etna 6:

2024

Cianotipia su vetro e lastra di basalto Occhio di pernice

30×32 cm

 

Crepa Etna 7:

2024

Cianotipia su vetro e lastra di basalto Occhio di pernice

42×54 cm

 

Crepa Etna 8:

2024

Cianotipia su vetro e lastra di basalto Occhio di pernice

30×32,5 cm

 

Crepa Etna 9:

2024:

Cianotipia su vetro e lastra di basalto Occhio di pernice

15×40 cm

 

UNA CREPA NEL PAESAGGIO, IL PROGETTO 

Esiste un paesaggio prima del paesaggio? La preoccupazione per i processi di rappresentazione della natura è una delle motivazioni essenziali del progetto Una crepa nel paesaggio, realizzato dall’artista Jon Cazenave sulla base dei suoi approcci a diversi vulcani attivi nella geografia italiana (Etna, Stromboli, Pozzuoli, Vulcano e Vesuvio). Partendo dal presupposto che ogni linguaggio, compreso quello artistico, modella la percezione del mondo e della natura, questo progetto propone una riflessione, attraverso l’arte, sui codici interpretativi che determinano i nostri condizionamenti culturali e il modo in cui guardiamo e interpretiamo la realtà.

In questo caso, l’incrocio tra strumenti tecnologici e materiali e supporti sperimentali, seppur di origine naturale, rende possibile un’inedita esegesi visiva del territorio. Da un lato, la combinazione di fotografia, informazioni provenienti da GoogleMaps e immagini LIDAR (scansione laser 3D delle superfici terrestri) determina nuove modalità di cattura che acquisiscono la loro materialità attraverso il trasferimento, sui diversi supporti delle opere, di pigmenti di ossido di ferro e zolfo provenienti dai vulcani. Dall’altro, la presenza di opere realizzate accoppiando strutture in pietra lavica con cristalli intervenuti mediante cianotipia (risultato del lasciar scorrere polvere di basalto sulla superficie emulsionata, in modo tale che il tempo di resistenza sul supporto determini la forma finale del tratto), esplora le possibilità di nuovi supporti e materiali che ampliano i margini della rappresentazione.

Questo approccio raggiunge diverse sfere di significato che si ripercuotono sui propositi dell’artista. In primo luogo, la visualizzazione congiunta dei diversi registri genera uno straniamento nello sguardo, risultato degli slittamenti formali generati dalle diverse tecniche e supporti di riproduzione. Questa diversità visiva enfatizza la volatilità del desiderio di rappresentazione e l’impossibilità di ottenere un’unica immagine che lo soddisfi pienamente. D’altro canto, la condizione estrema di temperatura ed eruzione dei vulcani rende impossibile qualsiasi germe vitale, allontanandoli dalle convenzioni di qualsiasi paesaggio rappresentato ed evitando la possibilità di un loro addomesticamento culturale. In definitiva, una condizione esistenziale legata al cambiamento orografico permanente le conferisce una temporalità personale e sfuggente, che rende difficile una categorizzazione definitiva.

Tuttavia, queste condizioni non hanno impedito la carica simbolica che, nel tempo, ha identificato i vulcani come assi di collegamento tra il mondo terreno e quello divino, oltre che come dimora di divinità mitologiche ancestrali. In definitiva, queste tensioni rivelano l’attivazione stessa del desiderio di fronte alla sua condizione di buco matriciale impossibile da coprire, una falla materiale e simbolica che sfugge a ogni controllo. Dato che questo buco nel reale non può mai essere colmato, può solo essere affrontato attraverso la rappresentazione e l’immagine, assumendo i limiti e le contraddizioni del processo stesso ed enfatizzando la fragilità e la caducità di ogni codifica culturale del paesaggio.

J. P. Huercanos

Una crepa nel paesaggio

Esiste un paesaggio prima del paesaggio? La preoccupazione per i processi di rappresentazione della natura è una delle motivazioni essenziali del progetto Una crepa nel paesaggio, realizzato dall’artista Jon Cazenave sulla base dei suoi approcci a diversi vulcani attivi nella geografia italiana (Etna, Stromboli, Pozzuoli, Vulcano e Vesuvio). Partendo dal presupposto che ogni linguaggio, compreso quello artistico, modella la percezione del mondo e della natura, questo progetto propone una riflessione, attraverso l’arte, sui codici interpretativi che determinano i nostri condizionamenti culturali e il modo in cui guardiamo e interpretiamo la realtà.

In questo caso, l’incrocio tra strumenti tecnologici e materiali e supporti sperimentali, seppur di origine naturale, rende possibile un’inedita esegesi visiva del territorio. Da un lato, la combinazione di fotografia, informazioni provenienti da GoogleMaps e immagini LIDAR (scansione laser 3D delle superfici terrestri) determina nuove modalità di cattura che acquisiscono la loro materialità attraverso il trasferimento, sui diversi supporti delle opere, di pigmenti di ossido di ferro e zolfo provenienti dai vulcani. Dall’altro, la presenza di opere realizzate accoppiando strutture in pietra lavica con cristalli intervenuti mediante cianotipia (risultato del lasciar scorrere polvere di basalto sulla superficie emulsionata, in modo tale che il tempo di resistenza sul supporto determini la forma finale del tratto), esplora le possibilità di nuovi supporti e materiali che ampliano i margini della rappresentazione.

Questo approccio raggiunge diverse sfere di significato che si ripercuotono sui propositi dell’artista. In primo luogo, la visualizzazione congiunta dei diversi registri genera uno straniamento nello sguardo, risultato degli slittamenti formali generati dalle diverse tecniche e supporti di riproduzione. Questa diversità visiva enfatizza la volatilità del desiderio di rappresentazione e l’impossibilità di ottenere un’unica immagine che lo soddisfi pienamente. D’altro canto, la condizione estrema di temperatura ed eruzione dei vulcani rende impossibile qualsiasi germe vitale, allontanandoli dalle convenzioni di qualsiasi paesaggio rappresentato ed evitando la possibilità di un loro addomesticamento culturale. In definitiva, una condizione esistenziale legata al cambiamento orografico permanente le conferisce una temporalità personale e sfuggente, che rende difficile una categorizzazione definitiva.

 

 SU JON CAZENAVE


Retrato JCA

(San Sebastián – Spagna, 1978). Autore austero, intenso e sintetico, le radici della sua opera penetrano nel conflitto tra natura e cultura – ragione ed emozione – come una sorta di rizoma cresciuto e diffuso nel corso degli anni.

Nei suoi primi lavori ha affrontato concetti come identità e memoria con uno sfondo onnipresente: il paesaggio. Quella che inizialmente era una registrazione documentaria sfocia in un rapporto dinamico con il paesaggio, intervenendo sul supporto che lo rappresenta o agendo direttamente sui materiali che lo abitano attraverso tecniche come la cianotipia, la risografia, la stampa al carbone o la serigrafia.
Le sue opere sono state esposte in istituzioni pubbliche e private come Sala Canal de Isabel II (Spagna), CaixaForum (Spagna), Tabakalera (Spagna), CentroCentro Palacio de Cibeles (Spagna), CCCB (Spagna), Fundación Museo Jorge Oteiza (Spagna), Guangdong Museum of Art (Cina), Museum Belvédère (Olanda), Museo de Artes Visuales MUNTREF (Argentina) e Fotomuseum Antwerp (Belgio). Ha partecipato a numerosi eventi internazionali, tra cui: Les Rencontres de la Photographie d’Arles (Francia), Noorderlicht Photofestival (Olanda), Guangzhou Image Triennial (Cina), Bienal Internacional de Arte Contemporáneo de América del Sur BIENALSUR (Argentina), Foto México (Messico) e Photoespaña (Spagna).

Web: www.joncazenave.com
Instagram: @joncazenave
Twitter: @joncazenave
Facebook: Jon Cazenave

CECILIA BARRIGA – Processi 151

CECILIA BARRIGA, OVUNQUE MI PORTI IL MIO NOME


.REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

OVUNQUE MI PORTI IL MIO NOME, IL PROGETTO

Taci Cecilia, taci.

Mia madre mi chiamò Cecilia perché cantassi. Con questa premessa sono venuta a Roma alla ricerca di altre Cecilie che, come me, fossero state chiamate dai loro genitori in quella musicalità diffusa, in quella storia di martirio e di violenza contro le donne che è iscritta nel nostro nome, il nome di Santa Cecilia.

Ho cercato Cecilie per le strade, alle manifestazioni, affiggendo manifesti nei negozi, ponendo direttamente quella domanda fuori luogo e, al tempo stesso, completamente situata nella città e nel corpo: ti chiami Cecilia?

E contro ogni pronostico, quasi guidate dalla magia delle cose quando vogliono accadere, 42 donne che si chiamavano allo stesso modo si sono riunite, in tre incontri di canto e riflessione.

Santa Cecilia ha ispirato centinaia di canzoni popolari nella storia musicale italiana, ma è stata La povera Cecilia, di Gabriella Ferri, quella che abbiamo fatto nostra. Quella del marito giustiziato, quella che uccide il carceriere, tutte quelle morti, la Cecilia assassinata.

Il nostro nome che ci unisce e questa canzone ci hanno accompagnato per portare in superficie le nostre storie di violenza, che ci uniscono a loro volta, che ci hanno accompagnato a creare e recuperare la memoria emotiva di quel nome aleatorio che tuttavia portiamo inscritto nella voce, nel corpo, nella memoria, collettivamente, in un percorso dell’essere una essendo molte e di essere molte stando insieme.

L’opera che vi presentiamo, Ovunque mi porti il nome, è il risultato materiale di questi incontri. Il risultato di una materia emotiva che condividiamo con voi, e che è anche già parte di noi.

Mia madre mi chiamò Cecilia perché cantassi.

Cecilia non tace più.

Canta, Cecilia, canta.

Libretto_perf copia

 

SU CECILIA BARRIGA


Cecilia barriga

Cecilia Barriga, nacida en 1957 en Concepción de Chile. Creadora audiovisual. Licenciada en Ciencias de la Información en UCM. Vive en Madrid desde 1977. Trabaja en diferentes ciudades del mundo.

Su obra indaga en los feminismos, las luchas sociales teniendo Chile como referente, el devenir de la violencia contra las mujeres, emigrantes y colectivos LGTBI+. Fascinada por la materia original de los archivos audiovisuales y por la captura en pequeño formato como lenguaje, su mirada capta tanto el espacio íntimo y solitario de una persona, como la performatividad espontánea de las multitudes. Estableciendo una tensión constante entre ambos espacios que impulsa la dinámica de sus relatos. Lleva más de cuarenta años trabajando en la creación audiovisual, colabora con colectivos y otros artistas. Utiliza diversos formatos, como videocreación, cine de no-ficción, documental , performance, etc. Exhibidos en cine, televisión y museos de arte contemporáneo de distintos países. MOMA Nueva York. Museo Whitney. Nikolaj, Copenhaguen. CAAC, Centro Andaluz de Arte Contemporáneo. Sale Rekalde, Bilbao. Bildmuseet Úmea University, Suecia. Centro de Arte Arteleku, ARTIUM, Vitoria. Centro de Arte Museo Reina Sofía, Madrid. MUSAC, León. Koldo Mitxelena Culturenea, San Sebastián, Van Abbeuseum Eindoven. Becas: Ministerio de Cultura ICAA. Ibermedia, AVAM-CRAC 70X2, Fundación VEGAP, Centro de Arte Monterhermoso, FFAI, Fundación Rosa Luxemburgo, BBVA Multiverso, etc.

https://www.hamacaonline.net/authors/cecilia-barriga/

www.wmm.com/filmmaker/Cecilia+Barriga/

A donde me lleve el nombre 1   A donde me lleve el nombre 2   A donde me lleve el nombre 3    A donde me lleve el nombre 4

LOLA SAN MARTÍN ARBIDE – Processi 151

LOLA SAN MARTÍN ARBIDE

MUSICA PSICO-GEOGRAFICA. LA SPERIMENTAZIONE SONORA NELL’INTERNAZIONALE SITUAZIONISTA (1957-1972)


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

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20 giugno 2024

 

SCHEDA TECNICA

L’arte come atmosfera e la musica come sottofondo sonoro 

Lola San Martín Arbide

2024

Walter Olmo (Alba, 1938-Roma, 2019), Come non si Comprende l’Arte Musicale. Morte e Trasfigurazione dell’Estetica, 1957

Documento originale in mostra

 

MUSICA PSICO-GEOGRAFICA. LA SPERIMENTAZIONE SONORA NELL’INTERNAZIONALE SITUAZIONISTA (1957-1972), IL PROGETTO

Nel corso della storia, la musica accademica è stata utilizzata come musica di sottofondo più spesso di quanto si possa pensare. Dal Novecento in poi, il pubblico delle principali sale da concerto è diventato gradualmente più silenzioso per consentire un ascolto concentrato, riflessivo e analitico. Questo tipo di ascolto è tuttavia un’eccezione. Molte opere che oggi ascoltiamo in questo modo sono state composte come sottofondo sonoro per azioni quotidiane, come godersi un banchetto o conciliare il sonno. È il caso della Tafelmusik di Georg Philip Telemann e delle Variazioni Goldberg di J. S. Bach, per citare due casi paradigmatici. Tuttavia, è solo all’inizio del Novecento che avviene una differenza formale nella composizione della musica d’ambiente e di quella concepita per un ascolto attento. La musica di sottofondo è quindi concepita come necessariamente discreta e la sua durata e struttura dipendono più dalle esigenze specifiche della vita quotidiana che dalle convenzioni compositive delle varie forme musicali quali la sonata, la fuga, il rondò, ecc. In questo modo, la musica d’ambiente si avvicina al design industriale e acquisisce pertanto le sfumature dell’utilitario e del funzionale.

La musica d’ambiente si colloca quindi all’estremo estetico opposto rispetto alla famosa concezione dell’arte per l’arte. Si tratta piuttosto di “soddisfare bisogni utili”, come disse il compositore francese Erik Satie (1866-1925), che teorizzò questo genere funzionale con i suoi brani noti come Musique d’ameublement (1917), che definì suoni industriali. Satie lavorò in una Parigi rivoluzionata da nuove forme di consumismo e intrattenimento popolare. Sia la sua musica d’ambiente che quella cinematografica devono molto a questo contesto urbano, dove hanno attinto tanto dalla musica da cabaret quanto dai suoni delle strade e dal design industriale e dai suoi materiali. Così, alcune delle sue brevi composizioni d’ambiente hanno titoli come “Piastrelle sonore” (Carrelage phonique) o “Arazzo in ferro battuto” (Tapisserie en fer forgé). Nel “Saggio sulla musica d’arredamento” Satie difende la sua proposta di uno sfondo musicale con un tono scherzoso che imita gli slogan pubblicitari e annuncia questo tipo di musica come un nuovo genere che può essere “confezionato su misura”.

La musica utilitaristica di Satie è stata descritta come un vicolo cieco. La figura di questo compositore è stata recuperata solo nella seconda metà del Novecento nel contesto della neoavanguardia attraverso il compositore americano John Cage. Descritto come una figura discordante e marginale nel contesto di Parigi, sembra che Satie non abbia lasciato tanti discepoli tra i compositori quanto tra gli artisti di altre discipline. Il fotografo Man Ray descrisse Satie come l’unico compositore che avesse anche gli occhi. Nella sua Francia natale, il pittore francese Maurice Lemaître, membro del gruppo d’avanguardia dell’Internazionale Lettrista, rivendicava la “musica di Satie che non serve a nulla” come uno dei meriti dell’avanguardia storica. L’Internazionale Lettrista si unì alla London Psychogeographical Association e al Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista per fondare l’Internazionale Situazionista nel 1957.

L’Internazionale Situazionista tenne il suo congresso di fondazione nell’estate del 1957 nel paesino di Cosio d’Arroscia, in Liguria. Questo collettivo basava gran parte della sua sperimentazione artistica sullo studio e la creazione di ambienti. L’atteggiamento utopico dei situazionisti si proponeva di smantellare il concetto di opera d’arte autonoma e di favorire invece la “dissoluzione dell’arte in una rivoluzione politica”. Una delle principali preoccupazioni di questa rivoluzione era il modo in cui l’ambiente urbano condiziona la vita emotiva delle persone. Da qui nacquero la pratica della deriva psicogeografica e il concetto di urbanistica unitaria, che chiedevano entrambi di trasformare la città in un campo di possibilità in cui il soggetto non fosse estraneo al gioco e all’avventura. In questo contesto, la pratica artistica si orientava non verso la creazione di opere autonome, bensì verso la costruzione integrale di un’atmosfera.

Il 30 maggio 1958 venne inaugurata alla Galleria Notizie di Torino La Caverna dell’antimateria, opera del pittore piemontese Pinot-Gallizio e del figlio Giors Melanotte. Si tratta di un’opera pionieristica di installazione multimediale e immersiva nel contesto dell’avanguardia europea. Le pareti di questa caverna erano ricoperte dalla pittura industriale di Gallizio, che veniva venduta al metro e che, come la Musique d’ameublement di Satie, poteva quindi essere realizzata su misura. La Caverna era un ambiente totale, in cui convergevano la pittura e il suono, la diffusione di profumi e il movimento di figure umane, anch’esse vestite con le tele di Gallizio.

Rispondendo ai precetti situazionisti, il compositore Walter Olmo (1938-2019) – unico musicista tra i fondatori dell’Internazionale Situazionista – ideò una musica d’ambiente con sottofondi sonori, i cui principi applicò all’installazione torinese della Caverna, la cui componente sonora proveniva da un theremin modificato. Tra i suoi testi del 1957 ricordiamo “Come non si Comprende l’Arte Musicale. Morte e Trasfigurazione dell’Estetica”, qui presentato integralmente.

Gallizio immaginava che la sua pittura industriale potesse avere una varietà di applicazioni, ad esempio nell’arredamento e nell’architettura. Olmo, da parte sua, aveva iniziato a sperimentare la manipolazione del suono a metà degli anni Cinquanta, utilizzando nastri magnetici. La sua musica per sottofondi sonori doveva essere discreta e adattarsi alla vita quotidiana. Olmo ne prevedeva la diffusione in spazi come salotti, bar, biblioteche, cucine, ecc. Il musicista, produttore e compositore britannico Brian Eno (1948) ha definito la sua ambient music negli stessi termini. Olmo si riferiva alla sperimentazione con il rumore dei futuristi come uno dei precedenti storici della sua musica d’ambiente. Eno, d’altra parte, cita nei suoi scritti Muzak, il marchio americano che negli anni Trenta vendeva musica d’ambiente per negozi e abitazioni e il cui nome designa genericamente questa musica, chiamata anche canned music, musica da ascensore, musica leggera ecc.

Il primo album di musica di sottofondo di Eno, Ambient 1: Music for Airports (1978), è spesso considerato l’opera che ha inaugurato il genere. Fu utilizzato in pubblico all’aeroporto La Guardia di New York e fu il primo di una lunga serie di album d’ambiente del compositore. L’idea centrale che collega queste tre menti originali è il suo carattere industriale e la possibilità di comporre una musica che non culmina mai in una cadenza finale: la musica d’ambiente si adatta alla durata delle attività della vita quotidiana.

Proprio come Satie e Olmo, la musica d’ambiente di Eno è il frutto del suo interesse per i parallelismi tra musica e pittura e per la capacità della musica di creare ambienti immersivi. L’utopia della meccanizzazione della composizione della musica d’ambiente, del suo design e della sua produzione industriale, si concretizza nel caso di Eno nelle applicazioni per telefoni cellulari sviluppate dal compositore in collaborazione con Peter Chilvers. Queste producono la cosiddetta musica generativa che rende obsoleta la figura del compositore. Il compositore vive ora nel telefono di chiunque scarichi l’applicazione, creando così una musica d’ambiente infinita ma sempre mutevole.

La musica d’ambiente di Satie, Olmo ed Eno si basa sull’esplorazione della nozione di utilità applicata alla musica. Questa nozione è veicolata attraverso l’utopia macchinista di progettare sistemi creativi o dispositivi industriali in grado di generare arte, un’arte liberata dagli aspetti mondani della creazione artistica, come i vincoli di spazio e tempo di un’opera d’arte convenzionale o la necessità di ispirazione e ingegno. Questi sistemi producono ripetizioni a volontà e generano una composizione che promette di fondersi con l’ambiente. È paradossale, tuttavia, che questi esempi siano musica d’ambiente relativamente poco discreta: quella di Satie per la sua sonorità incisiva, quella di Olmo per il contesto espositivo in cui si inserì, mentre quella di Eno attira l’attenzione dell’ascoltatore per la sua originale finezza. In ognuno dei tre casi si può apprezzare lo sforzo dei compositori di rivendicare il diritto al silenzio, di non rovinare le atmosfere quotidiane utilizzando come sottofondo sonoro opere che non sono state concepite per questo uso, e di offrire un’alternativa specificamente pensata per questo scopo. Satie lo ha fatto partendo dall’avanguardia più ironica, Olmo dall’utopia rivoluzionaria ed Eno dal fascino per la tecnologia della produzione musicale.

 

SU LOLA SAN MARTÍN ARBIDE


Lola SanmartinBilbao, 1987. Lola San Martín Arbide si è laureata in Storia e Scienze della Musica e in Traduzione e Interpretazione presso l’Università di Salamanca. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Musicologia presso la stessa università nel 2013 con una tesi sulla musica d’ambiente, lo spazio urbano e l’arte multimediale. Da allora ha lavorato come ricercatrice post-dottorato presso l’Università dei Paesi Baschi ed è stata ricercatrice presso la Oxford University e l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi. Attualmente è ricercatrice Ramón y Cajal nell’Area della Musica dell’Università di Siviglia. Ha effettuato soggiorni di ricerca presso l’Observatoire musical français (Paris IV-Sorbonne), la University of California Los Angeles (UCLA) e il New Europe College-Institute for Advanced Study (Bucarest).

Le sue principali linee di lavoro sono la storia culturale della musica dal XIX secolo in poi, gli scambi tra le arti, la musica nei media audiovisivi, i rapporti tra musica e spazio urbano, l’ecologia sonora e la storia delle emozioni, in particolar modo la nostalgia. Ha pubblicato articoli e numerosi capitoli di libri su Erik Satie e Claude Debussy, sull’opera Carmen, sulle mappe sonore e attualmente sta scrivendo una monografia sul paesaggio sonoro e musicale di Parigi attraverso il cinema, la letteratura e la musica del XIX e XX secolo.

ANE RODRÍGUEZ ARMENDARIZ – Processi 151

ANE RODRÍGUEZ ARMENDARIZ, MATERIE DI CURA


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

MATERIE DI CURA, IL PROGETTO

Materie di cura è un progetto di ricerca speculativa e propositiva sulle pratiche di cura nel campo delle istituzioni artistiche. Nel suo aspetto speculativo, cerca di esplorare il potenziale del campo dell’arte per generare spazi di cura. Nel suo aspetto propositivo, mira a raccogliere e presentare le strategie esistenti, offrendo alternative concrete. Concentrandosi su casi di studio provenienti dal contesto italiano, il progetto si è concentrato in particolare su ambienti di intensa convivenza, come le residenze artistiche. Ispirandosi ai postulati ecofemministi di María Puig de la Bellacasa, che sottolineano la natura intrinsecamente relazionale della conoscenza, la ricerca ha proposto processi collettivi di riflessione articolati attraverso diversi formati.

 Nel corso di questi sei mesi sono state sviluppate diverse attività che hanno approfondito la ricerca.

 1. Materie di cura

Stampa digitale, formato 70 x 100

Design dell’immagine: Igor Baiona

Testo del progetto. >>> Per leggere di più, cliccate qui: Materie di cura_IT

2. Tassonomia della cura

Vinile tagliato.

Audio 5’48”.

Grazie a Belenish Gil Moreno e Óscar Escudero per la registrazione e il montaggio dell’audio.

Definizioni sulla cura date da diversi borsisti e operatori dell’Accademia Reale di Spagna alla domanda Qual è la tua definizione di cura? nel marzo 2024. Grazie a: Alejandro, Alex, Alonso, Amaya, Begoña, Belén, Brigitte, Carmen, Cecilia, Kimi, Lidia, Luz, Maria, María Luisa, Miguel, Óscar, Pedro C, Petro T, Rocío, Rubén, Simona. Anche a Camila per essersi unita alle letture effettuate da diversi colleghi nel giugno 2024.

3. Letture di cura

Stampa digitale 80 x 50

Design dell’immagine: Igor Baiona Munain

Compendio dei testi letti durante le sessioni di lettura.

Letture di cura è stato un gruppo di lettura nell’ambito del progetto Materie di cura. Attraverso i testi proposti da ciascun ospite, sono state affrontate questioni relative alla prassi istituzionale a partire da postulati teorici. Ognuno di loro ha presentato testi particolarmente rilevanti per il proprio modo di intendere e affrontare l’istituzione.

Ospiti: Chiara Cartuccia, Elena Agudio, Simone Frangi, The Glorious Mothers, Castro Projects e Ayse Idil Idil, Gioia Dal Molin.

Si ringraziano tutti i partecipanti per il loro contributo:

Agnese, Alba, Alessandra, Angelica, Anna, Ayse, Caterina, Cecilia, Chiara C., Chiara P., Dafne, Dani, Daniele, Dora, Elena A., Elena B., Erika, Eva, Fabiola, Federica, Federico, Flavia, Francesca, Ginevra, Gioia, Irene, Ixone, Joshua, Justa, Marta, Paulina, Renata, Sara A., Sara B., Sarina, Simone, Valerio.

4. Verso un’idea di cura

Il 20 e 21 maggio si è svolto il programma pubblico che ha concluso il progetto Materie di cura. Verso un’idea di cura. Esperienze e proposte per le istituzioni artistiche è stata la naturale prosecuzione delle sessioni di lettura che hanno cercato di trovare le basi per attivare le nostre organizzazioni da prospettive più solidali. Il seminario ha mostrato diversi esempi e proposte provenienti dalla Spagna e dall’Italia che esplorano le dinamiche relazionali tra le istituzioni e le loro comunità, con particolare attenzione al concetto di cura e ai suoi immaginari.

Programa:

Introduzione. Ane Rodríguez Armendariz. On making home. Elena Agudio, Anna Serlenga, Fabiola Fiocco. On supporting collectively. Flavia Introzzi.     On making relationsRoser Colomar, Cecilia Canzani & Ilaria Gianni, Valerio del Baglivo. On caring beyond the human, Erika Mayr. On making time. Alba Colomo, Francisco Navarrete, Andrés Gallardo, Flavia Prestininzi.On your hands, on your breath.  Sarina Scheidegger.

Video riassuntivo del programma pubblico Verso un’idea di cura

Video, 6′.

Regia e montaggio di Marcos Mendívil.

Grazie a Cecilia Barriga.

Come preludio all’attività pubblica, un workshop ha riunito curatori con sede in Spagna o in Italia con esperienza in organizzazioni artistiche e programmi di accoglienza per artisti per scambiare prospettive sulle possibilità e i limiti delle istituzioni artistiche.

Il workshop è stato facilitato da Irene Angenica e Ane Rodríguez Armendariz, con la partecipazione di Alba Colomo (La Escocesa, Barcelona), Ane Agirre Loinaz (Tabakalera, San Sebastián), Anna Tagliacozo (Castro Projects, Roma), Chiara Cartuccia (Comisaria invitada en la Unidad de Residencias UNIDEE, Fondazione Pistoletto, Biella), Chiara Siravo (Locales, Roma), Elena Agudio (Villa Romana, Florencia), Flavia Introzzi (hablarenarte, Madrid), Francesco Navarrete (L’Aquila Reale, Licenza), Frédéric Blancart (Villa Medici, Roma), Ginevra Ludovici (CampoBase, Roma), Ilaria Gianni (IUNO, Roma), Ilaria Mancia (comisaria independiente, Roma), Roser Colomar (Idensitat/ Cultura Resident, Barcelona/Valencia).

SU ANE RODRÍGUEZ ARMENDARIZ


Ane Rodríguez Armendariz RRSS-WEB

Ane Rodríguez Armendariz lavora all’intersezione tra curatela e gestione culturale, in quella che concepisce come pratica istituzionale, uno spazio da cui riformulare e definire le modalità di funzionamento delle istituzioni artistiche in relazione alle loro comunità. È da questa posizione che affronta il lavoro che ha svolto in diverse istituzioni culturali spagnole negli ultimi 18 anni.

Da settembre 2020 a giugno 2023 è stata responsabile del Centro de residencias artísticas de Matadero Madrid, dove ha articolato una serie di programmi volti a sostenere e accompagnare gli artisti. Come direttrice culturale di Tabakalera (San Sebastian, Spagna) tra il 2012 e il 2019, è stata responsabile della configurazione del progetto culturale iniziale, che comprendeva programmi di sostegno alla produzione di arte e conoscenza, attraverso mostre, residenze e programmi pubblici.

Il suo interesse per il cinema e le arti visive l’ha portata a lavorare anche in un luogo intermedio di linguaggi audiovisivi sperimentali che attraversano tanto i cinema quanto le sale espositive. Ha lavorato con artisti come Yto Barrada, Itziar Okariz, Eric Baudelaire, Esther Ferrer, JumanaManna, Uriel Orlow o Filipa Cesar.

Dal 2020 è tutor dei progetti presso la Elías Querejeta Zine Eskola.

MÒNICA PLANES – Processi 151

MÒNICA PLANES, PILA


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

SCHEDE TECNICHE

Pila

Mònica Planes

2024

 

Era verso fuori e ora verso dentro (non si vanta più), 2024

Malta di sabbia e grasso vegetale, fagioli, paraffina, gesso, legno

100 x 40 x 30 cm

 

Svolta inaspettata (insostenibile), 2024

Malta di sabbia e grasso vegetale, paraffina, gesso, garza, legno

100 x 60 x 30 cm

 

Manca un corpo allungato (abbraccio), 2024

Malta di sabbia e grasso vegetale, fagioli, paraffina, gesso, legno cemento

75 x 195 x 35 comunque

 

Pila è un’indagine scultorea sulla rappresentazione del corpo in movimento nel corso della storia. Le tre sculture sono il risultato di questa ricerca in Italia. Sono fatte con una malta di sabbia e grasso vegetale e prendono forma usando il corpo intero come uno strumento per dare forma al materiale.

 

PILA, IL PROGETTO

Pila è un’indagine scultorea sulla rappresentazione del corpo in movimento nel corso della storia: quali tipi di corpi sono stati rappresentati, in quali posture, con quali materiali, con quale motivo e come sono entrati in relazione con l’ambiente circostante. La ricerca si articola in tre parti. La prima parte è uno studio sul campo della scultura di diversi periodi storici in cui è presente la rappresentazione del corpo. La seconda è uno studio del movimento, che consiste nell’appropriarsi del movimento trovato nelle sculture precedentemente selezionate, per poi riprodurlo nel corpo e ripeterlo sotto forma di esercizi per immagazzinarlo nella memoria muscolare. Con questa metodologia voglio incorporare il movimento, le posture e, quindi, gli atteggiamenti rappresentati e fissati scultoreamente in altri contesti. Infine, la terza parte consiste in un processo di sperimentazione con materiali organici in cui fissare questi movimenti trovati nelle sculture. Mi interessano materiali come il grasso, il carbone, la paglia o il pane per la loro capacità di immagazzinare e trasformare energia. In questo modo, la scultura cessa di essere un oggetto con un inizio e una fine e diventa uno stato di un processo più ampio che si estende nel tempo e dipende dalle caratteristiche ambientali del contesto in cui si trova.

Nel corso delle mie ricerche in Italia, mi sono concentrata soprattutto sulla scultura dell’antichità (greca e romana) e dell’età moderna (Rinascimento e Barocco), sebbene abbia esplorato, in misura minore, anche la scultura medievale. In tutti questi periodi, la rappresentazione del corpo è stata importante.

Finora ho osservato come la pratica della copia, dell’imitazione e della ripetizione attraversino tutti questi contesti storici in modo non lineare. Pertanto, nel realizzare questo gruppo di tre sculture, ho continuato a utilizzare queste tecniche come metodo di lavoro, ma senza cercare una rappresentazione diretta ma, piuttosto, esplorando la ripetizione, l’imitazione e la copia come processi creativi indipendenti dalla rappresentazione figurativa. Vale a dire che, per dare forma a queste sculture, sono partita da una selezione di sculture trovate in Italia, mi sono messa al loro posto e ho imitato il comportamento del corpo che rappresentano. L’imitazione mi aiuta a capire il loro comportamento e a ottenere un ritorno. Io agisco come la scultura per dare forma a un’altra scultura, e in un certo senso anche lei dà forma a me. Portando le caratteristiche del corpo rappresentato nel mio corpo, esse si caricano della mia esperienza. Il processo è circolare, perché nelle loro possibilità trovo le mie.

La sabbia è il materiale che utilizzo maggiormente nel mio processo di lavoro. La uso per registrare il movimento del corpo, che in questo caso a volte è il mio, altre volte quello delle mie compagne di residenza. Una volta registrato il movimento, posso solidificarlo con altri materiali. In questo caso, ho usato il grasso vegetale di cocco come agglutinante per la sabbia, generando una malta, ma di grasso invece che di cemento. In questo modo, il grasso diventa un elemento strutturale delle sculture e mi permette di farle e disfarle quando ne ho bisogno, semplicemente modificando la temperatura dell’ambiente.

A Roma fa molto caldo in questi giorni, quindi presento queste tre opere accompagnate da ventilatori che mantengono stabile la temperatura della stanza e permettono loro di rimanere intatte per tutta la durata di questa mostra. In caso contrario, potrebbero sciogliersi nel momento più insperato.

 

 SU MÒNICA PLANES 


monica Planes

Mònica Planes (Barcellona, 1992) ha conseguito un Master in Produzione e Ricerca Artistica (2016) e si è laureata in Belle Arti presso l’Università di Barcellona (2014). Ha presentato il suo lavoro individualmente alla Fundación Suñol (2017), insieme ad Alejandro Palacín alla Fundación Arranz-Bravo (L’Hospitalet de Llobregat, 2018), al Centro Cívico Can Felipa (Barcellona, 2020), alla galleria àngels barcelona (Barcellona, 2021, Art Nou 2017), con Pipistrello (Baix Empordà, 2021) e alla Gelateria Sogni di Ghiaccio di Bologna (Bologna, 2022). Negli ultimi anni ha ricevuto borse di studio dalla Fondazione Felícia Fuster (2016), Han Nefkens – Posgraduados UB (2016), Fundación Guasch Coranty (2017), Ayudas Injuve para la Creación Joven (2018-2019) e Barcelona Crea 2021 (2022). Ha inoltre ricevuto il Premio Art Jove de la Sala d’Art Jove (2018), è stata selezionata per il III Premio Cervezas Alhambra (ARCO, 2019), per il Premio Miquel Casablancas (2020) o per la Biennal d’Art Ciutat d’Amposta BIAM (2020, 2018) e al Premio Generación 2023 di La Casa Encendida. Le ultime mostre collettive di cui ha fatto parte sono “Lo que pesa una cabeza” al TEA di Tenerife, “Remedios. Donde podría crecer una nueva tierra” prodotta da TBA21 al C3A di Cordoba e “Turno de réplica. Cuestión de piel” al Museo Patio Herreriano di Valladolid. Nel settembre del 2023 ha svolto una residenza presso lo spazio di ricerca Bulegoa z/b di Bilbao e, attualmente, è residente dell’Academia de España en Roma, Italia. Ha infine partecipato a diversi progetti educativi come Creadores En Residencia (2019) o “Fuera de reservas”.