BEGOÑA GARCÍA-ALÉN – Processi 151

BEGOÑA GARCÍA-ALÉN

UNA FINESTRA TRA DUE MURI


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

SCHEDA TECNICA

Dibujo (1)
2024
Lápiz sobre papel
70,5×93,5 cm

Dibujo (2)
2024
11×10,5cm (medidas variables)
Lápiz y témpera sobre papel

Dibujo (3)
2024
37,5×47 cm
Lápiz sobre papel

Dibujo (4)
2024
Lápiz y témpera sobre papel
40x40cm


Estructura (1)
2024
Madera, tinta vinílica, lápiz sobre papel
80x200x70cm

 

UNA FINESTRA TRA DUE MURI, IL PROGETTO

Una ventana entre dos muros es un proyecto de cómic que toma como referencia la obra de Carlo Scarpa para generar una investigación que explore la vinculación del lenguaje secuencial y la arquitectura.

La intención de esta propuesta es crear una obra gráfica que reflexione en torno a la relación entre estas dos disciplinas a través de lugares comunes como pueden ser la estructura o la creación de espacios, ya sean físicos o narrativos.

 

SU BEGOÑA GARCÍA-ALÉN 


begoña garcia alen

Begoña García-Alén González è un’artista plastica di Pontevedra. Ha studiato presso la Facoltà di Belle Arti di Pontevedra e la Kingston University di Londra.

Begoña lavora con i fumetti da una prospettiva molto personale. Le particolarità del suo lavoro coprono diversi livelli: da un lato, l’originalità del discorso che utilizza il linguaggio del colore e della forma all’interno di un media sequenziale e, dall’altro, il suo universo simbolico all’interno del piano narrativo. La sua retorica si avvale della tensione che esiste tra gli aspetti fisici degli oggetti e il loro potere enunciativo.

Dal 2014 ha pubblicato diverse opere con le case editrici Fosfatina, Apa-Apa Cómics e NL Ediciones, progetto editoriale che ha creato insieme ad Andrés Magán. Nel 2021 ha pubblicato Adeus Amigos, fumetto vincitore del Premio Castelao de Cómic de la Deputación Provincial da Coruña.

Come insegnante, ha tenuto workshop e conferenze presso istituzioni come IED Istituto Europeo di Design (workshop Paisaje experimental, Madrid, 2017), Afundación (A Arte no Cómic, Vigo, 2018) e Universidade de Vigo (Fanzine e cómic experimental, Facoltà di Belle Arti di Pontevedra, 2019).

Ha lavorato come illustratrice per Libros Walden, Terranova, BlackieBooks, Solo Magazine, Diari ARA, CentroCentro, tra gli altri.

BELENISH MORENO-GIL – Processi 151

BELENISH MORENO-GIL, IL CATALOGO È QUESTO


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

IL CATALOGO È QUESTO, IL PROGETTO 

Il progetto Il catalogo è questo prende il nome dalla celebre aria dell’opera Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, in cui Leporello fa un inventario e descrive le amanti del suo padrone. Questa proposta si articola come un dittico:

  • Il ciclo di canzoni intitolato The day Fanny Mendelssohn died, per soprano, pianoforte, tastiera, sensori, video ed elettronica, attinge alla tradizione del lied romantico, la cui formazione, come musica da salotto, costituiva il soffitto di cristallo che molti interpreti e compositori dovevano affrontare. Ogni brano è una microstoria su una donna diversa, anche se tre dei dieci brani del ciclo sono dedicati alla compositrice Fanny Mendelssohn.

 

Fanny Mendelssohn è considerata il paradigma della donna all’ombra di un uomo, nel suo caso, il fratello Felix. Il padre le negò la possibilità di far diventare la composizione la sua occupazione principale. La sua musica venne ascoltata tra le pareti del salotto di casa e soltanto da una ristretta cerchia di amici. Fu quando arrivò a Roma, invitata dal direttore dell’Accademia di Francia, che prese per la prima volta in considerazione di pubblicare le sue opere.

The day Fanny Mendelssohn died è stata presentata in anteprima a Roma il 10 maggio nella stessa sala in cui si trova questa installazione. Le interpreti sono state Magdalena Cerezo e Johanna Vargas.

 

  • Con la Tiktopera (I), invece, l’obiettivo è stato quello di portare sul social network le storie sviluppate nel ciclo di canzoni. Durante la residenza è stato realizzato un processo di ricerca per identificare gli elementi formali, scenici e musicali più rilevanti di TikTok. L’idea era quella di creare un corpus di come si opera su TikTok per poter successivamente utilizzare questo linguaggio nella creazione di una serie di piccoli brani.

Lo scorso 4 giugno si è tenuto un evento con l’etnomusicologo Juan Bermudez, specialista di TikTok e dottorando all’Università di Vienna, e il beatboxer Ervinho. Si è trattato di un incontro in cui sono state approfondite le difficoltà e le sfide della ricerca artistica in questo campo.

Sul tablet sopra il pianoforte è possibile vedere il primo video della serie. Per maggiori informazioni: TikTok @belenishmoreno_gil

 

https://youtu.be/8DnzSi2Wn6c

https://youtube.com/shorts/C4ssny0v7XM 

 

 SU BELENISH MORENO-GIL


Belen Moreno

Belenish Moreno-Gil (1993) è una post-compositrice, performer e musicologa. Dal 2018 la sua carriera artistica ruota attorno alla creazione di teatro musicale contemporaneo e alla drammaturgia musicale. Le sue opere sono state rappresentate al Münchener Biennale für Musiktheater, Kontakte Festival (Berlino), ZKM di Karlsruhe, Transit Festival (Lovanio), Landestheater di Linz o RainyDays del Lussemburgo. Nel 2021 il suo lavoro “Subnormal Europe” è stato premiato con una menzione d’onore al Prix Ars Electrónica, il più prestigioso premio al mondo nel campo dell’arte digitale. Attualmente è direttrice artistica di CLAMMY, studio e compagnia di teatro musicale contemporaneo, insieme a Óscar Escudero.

Alla carriera artistica affianca anche la ricerca come membro del gruppo “Música popular urbana y feminismos en España: estrategias, conflictos y retos de las mujeres en las prácticas musicales contemporáneas (2000-2023)”.

Instagram: @belenishmoreno_gil
Facebook: Belenish Moreno-Gil
TikTok: @belenishmoreno_gil

Web: https://www.belenishmorenogil.com/
Web: https://www.clammymusictheater.com

 

The day Fanny Mendelssohn died  IMG_5418

ALONSO GIL – Processi 151

ALONSO GIL, I FANTOCCI DI ROMA


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

I FANTOCCI DI ROMA, IL PROGETTO

Mi sono basato sul significato del termine italiano consapevolezza, che potrebbe essere tradotto come coscienza della realtà o coscienza dell’ambiente, e durante la mia permanenza a Roma ho posato il mio sguardo e messo al lavoro la mia macchina creativa in relazione agli esclusi dalla società, quella parte di mondo che generalmente ignoriamo perché non vogliamo vederla, in quanto la sola vista speculare ci fa girare la testa dall’altra parte.

La città come paradigma di convivenza umana rappresenta una promessa ai suoi cittadini di una vita basata sull’inclusione emancipatoria. Tuttavia, questa forma di socializzazione sta subendo ora una drastica interruzione in cui prevale l’esclusione.

In parallelo, ho dipinto una sorta di nuovi comandamenti, a mo’ di haiku, che ci esortano a vivere un’esperienza di vita piena e liberatoria.

 

PORCA MISERIA, ALONSO GIL Y RUBÉN OJEDA GUZMÁN

Porca Miseria è il titolo di una mostra concepita per essere presentata presso la norcineria Iacozzilli a Trastevere, nei pressi della piazza di San Cosimato. Le opere realizzate erano state pensate per essere circondate da prosciutto, salsicce, polpette, guanciale e, soprattutto, porchetta. Tuttavia, avendo sfidato le autorità italiane, la mostra non ha mai avuto luogo.

Porca Miseria è un’espressione colloquiale di stupore, rabbia, fastidio o delusione. È un modo molto italiano di maledire la sfortuna che si usa quando qualcosa va storto e denota frustrazione o disagio. D’altra parte, per noi era evocativo anche l’elemento del porco e della carne, in quanto temi ricorrenti nel nostro lavoro.

Grazie ai nostri interessi comuni e alla vicinanza dei nostri argomenti artistici, abbiamo instaurato una dinamica di produzione collaborativa che, nella maggior parte dei casi, ha dissolto l’autorialità. Dopo aver messo in piedi una sorta di laboratorio di argilla, luci, assemblaggio di oggetti trovati e readymade rimaneggiati, sono cominciate a fiorire opere che strizzavano l’occhio al selvaggio, al cannibalismo, al caso truccato, il tutto avvolto nel fumo nero emanato dalle nostre teste.

I pezzi ora esposti a Processi 151 sono diventati documenti di ciò che è diventata una voce inespressa di una grande mostra.

 

 SU ALONSO GIL


Alonso Gil web

Alonso Gil (1966) è un artista le cui pratiche in diversi formati, tipologie e discipline offrono una concezione generale dell’arte e dell’artista non soggetta a categorizzazioni impermeabili.
Dalla fine degli anni Ottanta lavora in vari contesti di sperimentazione sociale in progetti che coinvolgono diversi collettivi, stabilendo un processo di lavoro comune.

Ha tenuto mostre personali presso La Sala AtínAya di ICAS (Siviglia); Espacio Santa Clara ICAS (Siviglia); CICUS (Siviglia); The Anti-Personnel Mine BanConvention (Oslo); CAAC (Siviglia); ARTifariti, Tinduf (Algeria); Meiac (Badajoz); Museo Ex Teresa Arte Actual (Città del Messico). E nelle gallerie Buades e Formato Cómodo (Madrid); Berini (Barcellona); Cavecanem (Siviglia); 38 Langham Street Gallery (Londra); Kobochika (Tokyo) e AscanCroneGalerie (Amburgo).

Ha partecipato a mostre collettive presso il Núcleo de Arte, Maputo (Mozambico); MUSAC (León); CDAN (Huesca); NIV Art Gallery, New Delhi; NuitBlanche (Toronto); Miam, Séte (Parigi); Creative Time (New York); Manifesta 4 (Francoforte) o BIACS (Siviglia).

Ha sviluppato opere nello spazio pubblico come Canteminación, Cáceres Abierto, (Cáceres); Graffiti Celestial (Córdoba); Tunning Cofrade, Intervenciones en Jueves 08 (Siviglia) o Guantanamera, Madrid Abierto (Madrid).
Ha collaborato a pubblicazioni come Refractor, La Infiltración, Revista de Occidente, PromotionalCopy, EarthFirst e Vacaciones en Polonia.

Web: https://www.alonsogil.com
Instagram: @alonsogil_7

ALEJANDRO ANDÚJAR – Processi 151

ALEJANDRO ANDÚJAR, IL VUOTO DELLA MORETA


.REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

SCHEDA TECNICA

Vuoto della Moretta

Alejandro Andújar

2024

 

Plastico in scala 1:1 di tubo quadrato di alluminio 30×30 mm e compensato di pioppo verniciato.

È il soprannome popolare dato a un’area di via Giulia rimasta vuota dopo la distruzione del tessuto urbano che la costituiva nel 1939, a favore di un gran viale di collegamento tra il Gianicolo e la Chiesa Nuova prevista dal Piano regolatore di Marcello Piacentini.

L’installazione raccoglie il documento sotto forma di plastico in scala 1:1, al momento della demolizione del vano scala di un palazzo scomparso in questo aggressivo intervento urbanistico. Si tratta del numero 21 di vicolo dello Struzzo.

Lo spettatore vede una descrizione sintetica di uno spazio in un determinato momento. Il plastico esprime una rovina, ma non con macerie, resti di malta, tubature e travi di legno, bensì con legno di pioppo, balsa e alluminio, materiali tradizionali per la costruzione di un plastico.

 

IL VUOTO DELLA MORETA, IL PROGETTO

Dal 1939 c’è un terreno che si è consolidato come una realtà spaziale che, sulla base di un progetto urbanistico di Marcello Piacentini, architetto del regime mussoliniano, è rimasta pressoché immutata per 85 anni a causa di varie questioni burocratiche.

Con questo progetto spaziale voglio sovrapporre diverse realtà susseguitesi in questo luogo prima di arrivare al suo aspetto attuale, e quindi riflettere da un lato sullo scempio che questi interventi hanno fatto del tessuto sociale e urbano, e rivendicare, dall’altro, come un monumento al fallimento, le aspettative disattese che sono state concepite dal potere governativo.
In un contesto scenografico, il visitatore sperimenta l’atmosfera di camminare in un’installazione in cui queste sovrapposizioni sono presentate sulla base di una documentazione storica delle diverse trasformazioni verificatesi nel Vuoto della Moretta da Giulio II a Il Duce.

 

SU ALEJANDRO ANDÚJAR

Alejandro Andujar

Cáceres, 1979. Laureato in Belle Arti all’UCM e in Scenografia alla RESAD, continua la sua formazione come dottorando all’ETSAM.

Ha ricevuto borse di studio da diversi enti come l’Akademie der Bildende Kunste di Monaco, la Fundación José Estruch, l’UTE (Unión de Teatros de Europa).

Dal 2001 ha lavorato come scenografo e costumista per teatri come l’Ópera Teatre del Liceu di Barcellona, il Teatro Real di Madrid, il Gran Teatro de Ginevra, l’Ópera di Losanna e il Palau de les Artes di Valencia. Ha inoltre lavorato a stretto contatto con registi come Lluis Pasqual, Jose Luis Gómez, Gerardo Vera, Helena Pimenta, Alfredo Sanzol, Juan Carlos Martel e Julio Manrique in teatri nazionali spagnoli come il Centro Dramático Nacional, la Compañía Nacional de Teatro Clásico, il Tetre Lluire e il Teatro de La Zarzuela.

Ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti come il Premio Max, il Premio Butaca e il Premio de la Crítica Catalana. Parallelamente alla sua carriera professionale di scenografo, ha intrapreso un percorso di creazione artistica in cui esplora lo spazio e la sua percezione, in opere come El Futuro, insieme a Cris Celada, al Centro L’Artesá e ora alla RAER.

 

AMAYA GALEOTE – Processi 151

AMAYA GALEOTE, QUELLI CHE BALLAVANO A ROMA


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 |MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

scheda tecnica

Quelli che ballavano a Roma

Amaya Galeote

2024

Videoinstallazione multischermo

Durata: 28’

QUELLI CHE BALLAVANO A ROMA, IL PROGETTO

C’è stato un giorno in cui, guardando i miei genitori danzare, mi sono sorte molte domande: come vivevano quelle generazioni, qual era il loro rapporto con il ballo e come si conoscevano attraverso il corpo. Mi ha sempre interessato ciò che potevo imparare da loro, e questa curiosità mi ha portato a svolgere una ricerca su come erano i rapporti delle generazioni che hanno trascorso la loro giovinezza tra gli anni ‘60 e ‘70 in Spagna; che tipo di musica ascoltavano e i locali che frequentavano. Tutto questo è diventato un atto scenico in cui erano loro, attraverso interviste e riflessioni, a raccontarci come hanno vissuto quel periodo, condividendo le loro storie.

Sono andata a Roma con l’intenzione di continuare questa ricerca e mi sono posta le stesse domande e altre nuove che erano rimaste senza risposta. A Roma ho fatto molte interviste, conoscendo altri quartieri e altre persone che mi hanno convinto che non c’era una distanza così grande tra la generazione spagnola e quella italiana, nonostante le molte cose che pensavo li separassero, come ad esempio le note differenze politiche dell’epoca. Con tutte queste informazioni, mi è sembrato molto interessante mettere in dialogo i due Paesi, ed è in questo dialogo che si possono vedere le differenze, ma soprattutto le somiglianze tra loro. In tutto questo processo ci sono state più sorprese che certezze, e con tutto questo materiale ho deciso di fare una videoinstallazione esplorando qualcosa di nuovo per me, trattando l’immagine come se fosse una coreografia in cui tutto si unisce per farci capire parte di quel momento.

In quest’opera si è creato anche un piccolo spazio per un’indagine coreografica nata dai balli di quegli anni, che ho voluto condividere con i miei colleghi, rendendoli partecipi di tutto questo apprendimento. Insomma, farli danzare, un’esperienza che parla dell’individuo e del suo bisogno di appartenere a un gruppo.

In questa videoinstallazione mi avvalgo dell’aiuto di Cinzia Giovanettoni per il montaggio video, di Marc Álvarez per la composizione musicale e il suono e di Óscar Escudero per il montaggio video per multischermo, oltre che di tutte le persone intervistate a Madrid e a Roma e dei borsisti dell’Academia de España en Roma 2023/2024.

 

 SU AMAYA GALEOTE


Amaya Galeote

Amaya Galeote è danzatrice, coreografa e pedagoga, laureata in danza al Real conservatorio di Madrid e in Storia dell’Arte all’Universidad Complutense di Madrid.
La sua carriera è piuttosto eclettica: come interprete ha fatto parte di diverse compagnie di danza, come coreografa ha creato spettacoli e allo stesso tempo ha collaborato con artisti di altre discipline. Attualmente la sua carriera si incentra sul movimento scenico e sulla coreografia teatrale.

Ha usufruito di residenze creative presso il Centro coreográfico Canal e la Compañia Nacional de Danza, e diversi suoi lavori sono stati sovvenzionati sia dal Comune che dalla Comunità di Madrid.
Ha lavorato per il Teatro de la Zarzuela, Teatro Real, Teatro Español, Teatros del Canal, Teatre Lliure, Centro Dramático Gallego, Teatro Clásico, Teatre Nacional de Catalunya e ha partecipato a diverse produzioni per il Centro Dramático Nacional.

Collabora con registi come Carme Portacelli, Emilio Hernandez, Gianina Carbonariu, Amelia Ochandiano, Teatro en Vilo, Sergio Peris Mencheta, Marta Pazos, Alfredo Sanzol e Declan Donnellan.
Come direttrice ha curato l’anteprima del suo lavoro di ricerca “Los que bailaban” nella sezione +Dramas del centro dramático nacional; il suo ultimo lavoro come regista e coreografa è stato “Os navegantes”, per la compagnia Dançando com a diferença (Viseu, Portogallo).

CAMILA BARACAT VERGARA – Processi 151

CAMILA BARACAT VERGARA

LIBERTÀ AL CILE: RITORNO ALLE CENERI, MEMORIA E ARTE PUBBLICA ALLA BIENNALE DI VENEZIA DEL 1974


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 |MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

LIBERTÀ AL CILE: RITORNO ALLE CENERI, MEMORIA E ARTE PUBBLICA ALLA BIENNALE DI VENEZIA DEL 1974, il progetto 

Tornare alle ceneri per affrontare lo Sradicamento

 

Tra Venezia e il Cile ci sono 12.536 chilometri, quattro volte la distanza tra Venezia e la Palestina, nello specifico 3.603 chilometri fino a Gaza. Anche se sappiamo che la solidarietà nella Storia non sia mai precisamente dipesa dalla vicinanza territoriale, c’è qualcosa in questa distanza così vicina tra Venezia e Gaza e così lontana tra Venezia e il Cile che non posso fare a meno di notare.

Gli spostamenti e la genealogia dei movimenti che ci abitano intercedono e compaiono in ogni processo creativo o immaginario, per quanto si opponga resistenza. Oggi, strascico delle migrazioni dei miei antenati e in uno sradicamento ontologico conseguente alla mia disintegrazione materna, non posso far altro che cercare di tracciare un atlante del presente con le ceneri del passato per vedere in che modo le braci che continuano a bruciare mi interrogano.

 

 SU CAMILA BARACAT VERGARA


Camila Baracat

Camila Baracat Vergara, storica dell’Universidad Diego Portales di Santiago del Cile, Master in Comunicazione e Cultura Contemporanea dell’Universidad Nacional de Córdoba, Argentina. Diploma in Pratiche Curatoriali presso la Facoltà di Arti dell’Università del Cile.

Mi sono dedicata alla ricerca nel campo delle arti e del management culturale, agli studi sulla memoria e al loro legame con le pratiche artistiche, principalmente attraverso la fotografia. Nel 2022 ho pubblicato il libro “Memorias de Luz: Imágenes que faltan” con la casa editrice Ocholibros. Curatrice e ricercatrice della mostra “Inventario: fotolibros y otras visualidades desde el 73 hasta hoy”, esposta al Centro Cultural Palacio la Moneda nell’ambito della Fiera Stgofoto 2023 e alla Biblioteca Nazionale del Cile (da settembre a novembre 2023). Faccio parte del team di gestione della mostra Acontecer 50 años, un’esposizione per il 50° anniversario del colpo di Stato in Cile presso il Museo Nacional de Bellas Artes. Assistente di ricerca di Luz María Williamson per la mostra “Variaciones Espaciales” Retrospettiva dell’artista franco-cilena Simone Chambelland (2023).  Ho partecipato come ricercatrice e responsabile di progetti per la diffusione delle arti visive e il coordinamento di mostre in varie istituzioni culturali: Galería San Marcos, Galería Ex Aduana e Teatro Municipal di Arica (2022) tra gli altri.

IXONE SÁDABA – PROCESSI 151

IXONE SÁDABA, abitare le rovine della modernità 


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

SCHEDA TECNICA

Abitare le rovine della modernità

Ixone Sádaba

2024

 

TITOLO 1: CHI SOSTIENE L’ISTITUZIONE? I PARALIZZATO DALLA PAURA

TITOLO 2: CHI SOSTIENE L’ISTITUZIONE? II VIVO SENZA MEMORIA

Fotografie in stampa digitale su carta di cotone.

140 x 100 cm.

Ed 1/3.

2024

 

TITOLO 3: ROTTURA, SOSTEGNO E STRUTTURA DELLA ROVINA MORALE I

TITOLO 4: ROTTURA, SOSTEGNO E STRUTTURA DELLA ROVINA MORALE II

Strutture di legno e metallo + diversi elementi personali.

Dimensioni variabili.

Edizione unica.

2024

 

ABITARE Le rovine della modernità, il progetto

L’impalcatura è una struttura ausiliare e, al tempo stesso, essenziale nella conservazione architettonica delle rovine. Una struttura che mi interessa particolarmente per tre ragioni: per il carattere interessante della sua forma, per il fatto di sostenere e mantenere e per il modo in cui questo la lega alla maternità.

Partendo dal riferimento iniziale delle strutture di consolidamento delle rovine nate nell’Ottocento, prospetto qui un cambiamento di paradigma, un gioco semantico e formale sull’idea di rovina rispetto a quella della cura e del sostegno. Il progetto sviluppato in Accademia si concretizza in un’installazione di quattro opere, che concilia scultura e fotografia e che mi ha permesso di continuare l’esplorazione su cui si basa gran parte del mio lavoro.

Che cosa segnaliamo per il futuro? Stiamo puntellando una rovina morale?

Mentre ci sforziamo di sostenere le rovine di un impero, avanziamo tramite un processo di distruzione sociale sistematica. Un’idea di progresso che, nata dopo la Seconda guerra mondiale fondamentalmente negli Stati Uniti, convive con una forma patriarcale di fare politica che conforma la storia dell’Occidente (compresa la storia di Roma) e che ci ha portato fino a questa modernità ereditata; semplificata, etnocentrica e distruttiva. L’arroganza dei conquistatori e delle corporazioni rende incerto ciò che possiamo tramandare alla generazione successiva, umana e non umana.

Dalla mia posizione di artista e ricercatrice mi chiedo, come possiamo utilizzare meglio la nostra ricerca per arrestare l’ondata di rovina?

Possiamo mettere al centro l’atto del sostenere, del puntellare? È questo il ruolo del femminismo in pieno antropocene? E qual è il ruolo dell’immagine e della rappresentazione all’interno di un nuovo immaginario simbolico?

Che cosa decidiamo di preservare per il futuro?

L’impalcatura è una struttura ausiliare e, al tempo stesso, essenziale nella conservazione architettonica delle rovine. Usando come riferimento iniziale le strutture di consolidamento delle rovine nate nell’Ottocento, si prospetta un gioco semantico e formale sul trattamento preventivo della rovina. Un cambiamento di paradigma nel nostro concetto di cura e conservazione. Ponendo l’accento sull’atto di sorreggere e non sul sorretto.

Attraverso gesti di montaggio e assemblaggio, Sádaba genera una serie di paesaggi materiali costruiti con elementi trovati all’interno della fabbrica che comprendono vestiti da lavoro, mobili, piante e oggetti vari. In questo modo, le opere generano un racconto sulla materialità dell’Antropocene e un dialogo con le rovine architettoniche della centrale nucleare.

 su IXONE SÁDABA

Ixone Sadaba

Ixone Sádaba è un’artista e ricercatrice nata a Bilbao. Si è laureata in Belle Arti presso l’Università dei Paesi Baschi e ha completato la sua formazione presso l’Università Antonio de Nebrija di Madrid nel 2001 e con il Postgraduate Program dell’International Center of Photography di New York nel 2005.

Con oltre 20 anni di esperienza nel mondo dell’arte, ha sviluppato il suo lavoro tra gli Stati Uniti, Londra e l’Iraq e ha esposto le sue opere a livello internazionale in luoghi come il Museo Guggenheim di Bilbao, il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid, il MoCCa Contemporary Art Museum di Toronto e il Contemporary Arts Center di New Orleans.

 

 

JON CAZENAVE – Processi 151

JON CAZENAVE, UNA CREPA NEL PAESAGGIO


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

schede tecniche

Crepa Etna 1:

2024
Basalto trasferito su carta mediante serigrafia

80×60 cm

 

Crepa Etna 2:
2024
Basalto trasferito su carta mediante serigrafia

80×60 cm

Crepa Etna 3:

2024
Basalto trasferito su carta mediante serigrafia e basalto trasferito su vetro mediante serigrafia

80×60 cm.

 

Crepa Etna 4:
2024
Basalto trasferito su carta mediante serigrafia e basalto trasferito su vetro mediante serigrafia

80×60 cm

 

Crepa Etna 5:
2024
Basalto trasferito su vetro mediante serigrafia

80×60 cm

 

Crepa Etna 6:

2024

Cianotipia su vetro e lastra di basalto Occhio di pernice

30×32 cm

 

Crepa Etna 7:

2024

Cianotipia su vetro e lastra di basalto Occhio di pernice

42×54 cm

 

Crepa Etna 8:

2024

Cianotipia su vetro e lastra di basalto Occhio di pernice

30×32,5 cm

 

Crepa Etna 9:

2024:

Cianotipia su vetro e lastra di basalto Occhio di pernice

15×40 cm

 

UNA CREPA NEL PAESAGGIO, IL PROGETTO 

Esiste un paesaggio prima del paesaggio? La preoccupazione per i processi di rappresentazione della natura è una delle motivazioni essenziali del progetto Una crepa nel paesaggio, realizzato dall’artista Jon Cazenave sulla base dei suoi approcci a diversi vulcani attivi nella geografia italiana (Etna, Stromboli, Pozzuoli, Vulcano e Vesuvio). Partendo dal presupposto che ogni linguaggio, compreso quello artistico, modella la percezione del mondo e della natura, questo progetto propone una riflessione, attraverso l’arte, sui codici interpretativi che determinano i nostri condizionamenti culturali e il modo in cui guardiamo e interpretiamo la realtà.

In questo caso, l’incrocio tra strumenti tecnologici e materiali e supporti sperimentali, seppur di origine naturale, rende possibile un’inedita esegesi visiva del territorio. Da un lato, la combinazione di fotografia, informazioni provenienti da GoogleMaps e immagini LIDAR (scansione laser 3D delle superfici terrestri) determina nuove modalità di cattura che acquisiscono la loro materialità attraverso il trasferimento, sui diversi supporti delle opere, di pigmenti di ossido di ferro e zolfo provenienti dai vulcani. Dall’altro, la presenza di opere realizzate accoppiando strutture in pietra lavica con cristalli intervenuti mediante cianotipia (risultato del lasciar scorrere polvere di basalto sulla superficie emulsionata, in modo tale che il tempo di resistenza sul supporto determini la forma finale del tratto), esplora le possibilità di nuovi supporti e materiali che ampliano i margini della rappresentazione.

Questo approccio raggiunge diverse sfere di significato che si ripercuotono sui propositi dell’artista. In primo luogo, la visualizzazione congiunta dei diversi registri genera uno straniamento nello sguardo, risultato degli slittamenti formali generati dalle diverse tecniche e supporti di riproduzione. Questa diversità visiva enfatizza la volatilità del desiderio di rappresentazione e l’impossibilità di ottenere un’unica immagine che lo soddisfi pienamente. D’altro canto, la condizione estrema di temperatura ed eruzione dei vulcani rende impossibile qualsiasi germe vitale, allontanandoli dalle convenzioni di qualsiasi paesaggio rappresentato ed evitando la possibilità di un loro addomesticamento culturale. In definitiva, una condizione esistenziale legata al cambiamento orografico permanente le conferisce una temporalità personale e sfuggente, che rende difficile una categorizzazione definitiva.

Tuttavia, queste condizioni non hanno impedito la carica simbolica che, nel tempo, ha identificato i vulcani come assi di collegamento tra il mondo terreno e quello divino, oltre che come dimora di divinità mitologiche ancestrali. In definitiva, queste tensioni rivelano l’attivazione stessa del desiderio di fronte alla sua condizione di buco matriciale impossibile da coprire, una falla materiale e simbolica che sfugge a ogni controllo. Dato che questo buco nel reale non può mai essere colmato, può solo essere affrontato attraverso la rappresentazione e l’immagine, assumendo i limiti e le contraddizioni del processo stesso ed enfatizzando la fragilità e la caducità di ogni codifica culturale del paesaggio.

J. P. Huercanos

Una crepa nel paesaggio

Esiste un paesaggio prima del paesaggio? La preoccupazione per i processi di rappresentazione della natura è una delle motivazioni essenziali del progetto Una crepa nel paesaggio, realizzato dall’artista Jon Cazenave sulla base dei suoi approcci a diversi vulcani attivi nella geografia italiana (Etna, Stromboli, Pozzuoli, Vulcano e Vesuvio). Partendo dal presupposto che ogni linguaggio, compreso quello artistico, modella la percezione del mondo e della natura, questo progetto propone una riflessione, attraverso l’arte, sui codici interpretativi che determinano i nostri condizionamenti culturali e il modo in cui guardiamo e interpretiamo la realtà.

In questo caso, l’incrocio tra strumenti tecnologici e materiali e supporti sperimentali, seppur di origine naturale, rende possibile un’inedita esegesi visiva del territorio. Da un lato, la combinazione di fotografia, informazioni provenienti da GoogleMaps e immagini LIDAR (scansione laser 3D delle superfici terrestri) determina nuove modalità di cattura che acquisiscono la loro materialità attraverso il trasferimento, sui diversi supporti delle opere, di pigmenti di ossido di ferro e zolfo provenienti dai vulcani. Dall’altro, la presenza di opere realizzate accoppiando strutture in pietra lavica con cristalli intervenuti mediante cianotipia (risultato del lasciar scorrere polvere di basalto sulla superficie emulsionata, in modo tale che il tempo di resistenza sul supporto determini la forma finale del tratto), esplora le possibilità di nuovi supporti e materiali che ampliano i margini della rappresentazione.

Questo approccio raggiunge diverse sfere di significato che si ripercuotono sui propositi dell’artista. In primo luogo, la visualizzazione congiunta dei diversi registri genera uno straniamento nello sguardo, risultato degli slittamenti formali generati dalle diverse tecniche e supporti di riproduzione. Questa diversità visiva enfatizza la volatilità del desiderio di rappresentazione e l’impossibilità di ottenere un’unica immagine che lo soddisfi pienamente. D’altro canto, la condizione estrema di temperatura ed eruzione dei vulcani rende impossibile qualsiasi germe vitale, allontanandoli dalle convenzioni di qualsiasi paesaggio rappresentato ed evitando la possibilità di un loro addomesticamento culturale. In definitiva, una condizione esistenziale legata al cambiamento orografico permanente le conferisce una temporalità personale e sfuggente, che rende difficile una categorizzazione definitiva.

 

 SU JON CAZENAVE


Retrato JCA

(San Sebastián – Spagna, 1978). Autore austero, intenso e sintetico, le radici della sua opera penetrano nel conflitto tra natura e cultura – ragione ed emozione – come una sorta di rizoma cresciuto e diffuso nel corso degli anni.

Nei suoi primi lavori ha affrontato concetti come identità e memoria con uno sfondo onnipresente: il paesaggio. Quella che inizialmente era una registrazione documentaria sfocia in un rapporto dinamico con il paesaggio, intervenendo sul supporto che lo rappresenta o agendo direttamente sui materiali che lo abitano attraverso tecniche come la cianotipia, la risografia, la stampa al carbone o la serigrafia.
Le sue opere sono state esposte in istituzioni pubbliche e private come Sala Canal de Isabel II (Spagna), CaixaForum (Spagna), Tabakalera (Spagna), CentroCentro Palacio de Cibeles (Spagna), CCCB (Spagna), Fundación Museo Jorge Oteiza (Spagna), Guangdong Museum of Art (Cina), Museum Belvédère (Olanda), Museo de Artes Visuales MUNTREF (Argentina) e Fotomuseum Antwerp (Belgio). Ha partecipato a numerosi eventi internazionali, tra cui: Les Rencontres de la Photographie d’Arles (Francia), Noorderlicht Photofestival (Olanda), Guangzhou Image Triennial (Cina), Bienal Internacional de Arte Contemporáneo de América del Sur BIENALSUR (Argentina), Foto México (Messico) e Photoespaña (Spagna).

Web: www.joncazenave.com
Instagram: @joncazenave
Twitter: @joncazenave
Facebook: Jon Cazenave

CECILIA BARRIGA – Processi 151

CECILIA BARRIGA, OVUNQUE MI PORTI IL MIO NOME


.REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 | MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

OVUNQUE MI PORTI IL MIO NOME, IL PROGETTO

Taci Cecilia, taci.

Mia madre mi chiamò Cecilia perché cantassi. Con questa premessa sono venuta a Roma alla ricerca di altre Cecilie che, come me, fossero state chiamate dai loro genitori in quella musicalità diffusa, in quella storia di martirio e di violenza contro le donne che è iscritta nel nostro nome, il nome di Santa Cecilia.

Ho cercato Cecilie per le strade, alle manifestazioni, affiggendo manifesti nei negozi, ponendo direttamente quella domanda fuori luogo e, al tempo stesso, completamente situata nella città e nel corpo: ti chiami Cecilia?

E contro ogni pronostico, quasi guidate dalla magia delle cose quando vogliono accadere, 42 donne che si chiamavano allo stesso modo si sono riunite, in tre incontri di canto e riflessione.

Santa Cecilia ha ispirato centinaia di canzoni popolari nella storia musicale italiana, ma è stata La povera Cecilia, di Gabriella Ferri, quella che abbiamo fatto nostra. Quella del marito giustiziato, quella che uccide il carceriere, tutte quelle morti, la Cecilia assassinata.

Il nostro nome che ci unisce e questa canzone ci hanno accompagnato per portare in superficie le nostre storie di violenza, che ci uniscono a loro volta, che ci hanno accompagnato a creare e recuperare la memoria emotiva di quel nome aleatorio che tuttavia portiamo inscritto nella voce, nel corpo, nella memoria, collettivamente, in un percorso dell’essere una essendo molte e di essere molte stando insieme.

L’opera che vi presentiamo, Ovunque mi porti il nome, è il risultato materiale di questi incontri. Il risultato di una materia emotiva che condividiamo con voi, e che è anche già parte di noi.

Mia madre mi chiamò Cecilia perché cantassi.

Cecilia non tace più.

Canta, Cecilia, canta.

Libretto_perf copia

 

SU CECILIA BARRIGA


Cecilia barriga

Cecilia Barriga, nacida en 1957 en Concepción de Chile. Creadora audiovisual. Licenciada en Ciencias de la Información en UCM. Vive en Madrid desde 1977. Trabaja en diferentes ciudades del mundo.

Su obra indaga en los feminismos, las luchas sociales teniendo Chile como referente, el devenir de la violencia contra las mujeres, emigrantes y colectivos LGTBI+. Fascinada por la materia original de los archivos audiovisuales y por la captura en pequeño formato como lenguaje, su mirada capta tanto el espacio íntimo y solitario de una persona, como la performatividad espontánea de las multitudes. Estableciendo una tensión constante entre ambos espacios que impulsa la dinámica de sus relatos. Lleva más de cuarenta años trabajando en la creación audiovisual, colabora con colectivos y otros artistas. Utiliza diversos formatos, como videocreación, cine de no-ficción, documental , performance, etc. Exhibidos en cine, televisión y museos de arte contemporáneo de distintos países. MOMA Nueva York. Museo Whitney. Nikolaj, Copenhaguen. CAAC, Centro Andaluz de Arte Contemporáneo. Sale Rekalde, Bilbao. Bildmuseet Úmea University, Suecia. Centro de Arte Arteleku, ARTIUM, Vitoria. Centro de Arte Museo Reina Sofía, Madrid. MUSAC, León. Koldo Mitxelena Culturenea, San Sebastián, Van Abbeuseum Eindoven. Becas: Ministerio de Cultura ICAA. Ibermedia, AVAM-CRAC 70X2, Fundación VEGAP, Centro de Arte Monterhermoso, FFAI, Fundación Rosa Luxemburgo, BBVA Multiverso, etc.

https://www.hamacaonline.net/authors/cecilia-barriga/

www.wmm.com/filmmaker/Cecilia+Barriga/

A donde me lleve el nombre 1   A donde me lleve el nombre 2   A donde me lleve el nombre 3    A donde me lleve el nombre 4

LOLA SAN MARTÍN ARBIDE – Processi 151

LOLA SAN MARTÍN ARBIDE

MUSICA PSICO-GEOGRAFICA. LA SPERIMENTAZIONE SONORA NELL’INTERNAZIONALE SITUAZIONISTA (1957-1972)


REAL ACADEMIA DE ESPAÑA EN ROMA

PROCESSI 151 |  MOSTRA FINALE DEGLI ARTISTI E RICERCATORI RESIDENTI, STAGIONE 2023/2024

20 giugno 2024

 

SCHEDA TECNICA

L’arte come atmosfera e la musica come sottofondo sonoro 

Lola San Martín Arbide

2024

Walter Olmo (Alba, 1938-Roma, 2019), Come non si Comprende l’Arte Musicale. Morte e Trasfigurazione dell’Estetica, 1957

Documento originale in mostra

 

MUSICA PSICO-GEOGRAFICA. LA SPERIMENTAZIONE SONORA NELL’INTERNAZIONALE SITUAZIONISTA (1957-1972), IL PROGETTO

Nel corso della storia, la musica accademica è stata utilizzata come musica di sottofondo più spesso di quanto si possa pensare. Dal Novecento in poi, il pubblico delle principali sale da concerto è diventato gradualmente più silenzioso per consentire un ascolto concentrato, riflessivo e analitico. Questo tipo di ascolto è tuttavia un’eccezione. Molte opere che oggi ascoltiamo in questo modo sono state composte come sottofondo sonoro per azioni quotidiane, come godersi un banchetto o conciliare il sonno. È il caso della Tafelmusik di Georg Philip Telemann e delle Variazioni Goldberg di J. S. Bach, per citare due casi paradigmatici. Tuttavia, è solo all’inizio del Novecento che avviene una differenza formale nella composizione della musica d’ambiente e di quella concepita per un ascolto attento. La musica di sottofondo è quindi concepita come necessariamente discreta e la sua durata e struttura dipendono più dalle esigenze specifiche della vita quotidiana che dalle convenzioni compositive delle varie forme musicali quali la sonata, la fuga, il rondò, ecc. In questo modo, la musica d’ambiente si avvicina al design industriale e acquisisce pertanto le sfumature dell’utilitario e del funzionale.

La musica d’ambiente si colloca quindi all’estremo estetico opposto rispetto alla famosa concezione dell’arte per l’arte. Si tratta piuttosto di “soddisfare bisogni utili”, come disse il compositore francese Erik Satie (1866-1925), che teorizzò questo genere funzionale con i suoi brani noti come Musique d’ameublement (1917), che definì suoni industriali. Satie lavorò in una Parigi rivoluzionata da nuove forme di consumismo e intrattenimento popolare. Sia la sua musica d’ambiente che quella cinematografica devono molto a questo contesto urbano, dove hanno attinto tanto dalla musica da cabaret quanto dai suoni delle strade e dal design industriale e dai suoi materiali. Così, alcune delle sue brevi composizioni d’ambiente hanno titoli come “Piastrelle sonore” (Carrelage phonique) o “Arazzo in ferro battuto” (Tapisserie en fer forgé). Nel “Saggio sulla musica d’arredamento” Satie difende la sua proposta di uno sfondo musicale con un tono scherzoso che imita gli slogan pubblicitari e annuncia questo tipo di musica come un nuovo genere che può essere “confezionato su misura”.

La musica utilitaristica di Satie è stata descritta come un vicolo cieco. La figura di questo compositore è stata recuperata solo nella seconda metà del Novecento nel contesto della neoavanguardia attraverso il compositore americano John Cage. Descritto come una figura discordante e marginale nel contesto di Parigi, sembra che Satie non abbia lasciato tanti discepoli tra i compositori quanto tra gli artisti di altre discipline. Il fotografo Man Ray descrisse Satie come l’unico compositore che avesse anche gli occhi. Nella sua Francia natale, il pittore francese Maurice Lemaître, membro del gruppo d’avanguardia dell’Internazionale Lettrista, rivendicava la “musica di Satie che non serve a nulla” come uno dei meriti dell’avanguardia storica. L’Internazionale Lettrista si unì alla London Psychogeographical Association e al Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista per fondare l’Internazionale Situazionista nel 1957.

L’Internazionale Situazionista tenne il suo congresso di fondazione nell’estate del 1957 nel paesino di Cosio d’Arroscia, in Liguria. Questo collettivo basava gran parte della sua sperimentazione artistica sullo studio e la creazione di ambienti. L’atteggiamento utopico dei situazionisti si proponeva di smantellare il concetto di opera d’arte autonoma e di favorire invece la “dissoluzione dell’arte in una rivoluzione politica”. Una delle principali preoccupazioni di questa rivoluzione era il modo in cui l’ambiente urbano condiziona la vita emotiva delle persone. Da qui nacquero la pratica della deriva psicogeografica e il concetto di urbanistica unitaria, che chiedevano entrambi di trasformare la città in un campo di possibilità in cui il soggetto non fosse estraneo al gioco e all’avventura. In questo contesto, la pratica artistica si orientava non verso la creazione di opere autonome, bensì verso la costruzione integrale di un’atmosfera.

Il 30 maggio 1958 venne inaugurata alla Galleria Notizie di Torino La Caverna dell’antimateria, opera del pittore piemontese Pinot-Gallizio e del figlio Giors Melanotte. Si tratta di un’opera pionieristica di installazione multimediale e immersiva nel contesto dell’avanguardia europea. Le pareti di questa caverna erano ricoperte dalla pittura industriale di Gallizio, che veniva venduta al metro e che, come la Musique d’ameublement di Satie, poteva quindi essere realizzata su misura. La Caverna era un ambiente totale, in cui convergevano la pittura e il suono, la diffusione di profumi e il movimento di figure umane, anch’esse vestite con le tele di Gallizio.

Rispondendo ai precetti situazionisti, il compositore Walter Olmo (1938-2019) – unico musicista tra i fondatori dell’Internazionale Situazionista – ideò una musica d’ambiente con sottofondi sonori, i cui principi applicò all’installazione torinese della Caverna, la cui componente sonora proveniva da un theremin modificato. Tra i suoi testi del 1957 ricordiamo “Come non si Comprende l’Arte Musicale. Morte e Trasfigurazione dell’Estetica”, qui presentato integralmente.

Gallizio immaginava che la sua pittura industriale potesse avere una varietà di applicazioni, ad esempio nell’arredamento e nell’architettura. Olmo, da parte sua, aveva iniziato a sperimentare la manipolazione del suono a metà degli anni Cinquanta, utilizzando nastri magnetici. La sua musica per sottofondi sonori doveva essere discreta e adattarsi alla vita quotidiana. Olmo ne prevedeva la diffusione in spazi come salotti, bar, biblioteche, cucine, ecc. Il musicista, produttore e compositore britannico Brian Eno (1948) ha definito la sua ambient music negli stessi termini. Olmo si riferiva alla sperimentazione con il rumore dei futuristi come uno dei precedenti storici della sua musica d’ambiente. Eno, d’altra parte, cita nei suoi scritti Muzak, il marchio americano che negli anni Trenta vendeva musica d’ambiente per negozi e abitazioni e il cui nome designa genericamente questa musica, chiamata anche canned music, musica da ascensore, musica leggera ecc.

Il primo album di musica di sottofondo di Eno, Ambient 1: Music for Airports (1978), è spesso considerato l’opera che ha inaugurato il genere. Fu utilizzato in pubblico all’aeroporto La Guardia di New York e fu il primo di una lunga serie di album d’ambiente del compositore. L’idea centrale che collega queste tre menti originali è il suo carattere industriale e la possibilità di comporre una musica che non culmina mai in una cadenza finale: la musica d’ambiente si adatta alla durata delle attività della vita quotidiana.

Proprio come Satie e Olmo, la musica d’ambiente di Eno è il frutto del suo interesse per i parallelismi tra musica e pittura e per la capacità della musica di creare ambienti immersivi. L’utopia della meccanizzazione della composizione della musica d’ambiente, del suo design e della sua produzione industriale, si concretizza nel caso di Eno nelle applicazioni per telefoni cellulari sviluppate dal compositore in collaborazione con Peter Chilvers. Queste producono la cosiddetta musica generativa che rende obsoleta la figura del compositore. Il compositore vive ora nel telefono di chiunque scarichi l’applicazione, creando così una musica d’ambiente infinita ma sempre mutevole.

La musica d’ambiente di Satie, Olmo ed Eno si basa sull’esplorazione della nozione di utilità applicata alla musica. Questa nozione è veicolata attraverso l’utopia macchinista di progettare sistemi creativi o dispositivi industriali in grado di generare arte, un’arte liberata dagli aspetti mondani della creazione artistica, come i vincoli di spazio e tempo di un’opera d’arte convenzionale o la necessità di ispirazione e ingegno. Questi sistemi producono ripetizioni a volontà e generano una composizione che promette di fondersi con l’ambiente. È paradossale, tuttavia, che questi esempi siano musica d’ambiente relativamente poco discreta: quella di Satie per la sua sonorità incisiva, quella di Olmo per il contesto espositivo in cui si inserì, mentre quella di Eno attira l’attenzione dell’ascoltatore per la sua originale finezza. In ognuno dei tre casi si può apprezzare lo sforzo dei compositori di rivendicare il diritto al silenzio, di non rovinare le atmosfere quotidiane utilizzando come sottofondo sonoro opere che non sono state concepite per questo uso, e di offrire un’alternativa specificamente pensata per questo scopo. Satie lo ha fatto partendo dall’avanguardia più ironica, Olmo dall’utopia rivoluzionaria ed Eno dal fascino per la tecnologia della produzione musicale.

 

SU LOLA SAN MARTÍN ARBIDE


Lola SanmartinBilbao, 1987. Lola San Martín Arbide si è laureata in Storia e Scienze della Musica e in Traduzione e Interpretazione presso l’Università di Salamanca. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Musicologia presso la stessa università nel 2013 con una tesi sulla musica d’ambiente, lo spazio urbano e l’arte multimediale. Da allora ha lavorato come ricercatrice post-dottorato presso l’Università dei Paesi Baschi ed è stata ricercatrice presso la Oxford University e l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi. Attualmente è ricercatrice Ramón y Cajal nell’Area della Musica dell’Università di Siviglia. Ha effettuato soggiorni di ricerca presso l’Observatoire musical français (Paris IV-Sorbonne), la University of California Los Angeles (UCLA) e il New Europe College-Institute for Advanced Study (Bucarest).

Le sue principali linee di lavoro sono la storia culturale della musica dal XIX secolo in poi, gli scambi tra le arti, la musica nei media audiovisivi, i rapporti tra musica e spazio urbano, l’ecologia sonora e la storia delle emozioni, in particolar modo la nostalgia. Ha pubblicato articoli e numerosi capitoli di libri su Erik Satie e Claude Debussy, sull’opera Carmen, sulle mappe sonore e attualmente sta scrivendo una monografia sul paesaggio sonoro e musicale di Parigi attraverso il cinema, la letteratura e la musica del XIX e XX secolo.